venerdì 26 novembre 2021

Per riflettere "Adam Gopnik, Il manifesto del rinoceronte. L’avventura del liberalismo, Guanda 2020, pp. 288, 20,00 euro, eBook 10,99 euro





Erano un po’ come Marx ed Engels, di cui furono contemporanei, con la differenza che non erano comunisti arrabbiati ma liberali (non è una differenza da poco) e con la différence che John Stuart Mill era un uomo e Harriett Taylor una donna (e anche questa era una bella différence). Si conobbero quand’erano entrambi già sposati. Vedevano le cose del mondo nello stesso modo: le ingiustizie (sociali, politiche e culturali) andavano abrogate, evitando però che la loro soppressione ne originasse di nuove, come nei calcoli (sempre sbagliati) degli utopisti. Cominciarono a scambiarsi opinioni, poi a collaborare e infine (galeotto il liberalismo) intrecciarono una relazione adulterina. S’incontravano allo zoo di Londra, davanti alla gabbia del rinoceronte, dove tutti guardavano la grande bestia e nessuno badava a loro. Era lì che parlavano d’amore e di libertà, di condizione umana, dei diritti del popolo in generale e dei diritti delle donne in particolare (Harriett Taylor pubblicò nel 1851 il primo manifesto femminista, La liberazione delle donne, il Melangolo 2012, da cui ogni altro moderno progetto femminista deriva). Alla fine, dopo avere divorziato dai precedenti consorti, si sposarono, testimone il rinoceronte. Taylor morì molto presto, Stuart Mill ne fu devastato. 

Giornalista in forza al New Yorker, autore di memoir e saggi storici, penna «colta e brillante», il canadese Adam Gopnik affianca il rinoceronte alla Statua della Libertà promuovendolo, ex aequo, a simbolo del liberalismo. Massiccio e goffo, ma soprattutto concreto e indubitabile, il rinoceronte è la perfetta antitesi dell’unicorno, animale utopico, da cartone animato. Entrambi hanno un solo corno, ma le somiglianze finiscono qui: l’unicorno è una creatura immaginaria, che come l’utopia promette l’irraggiungibile e la luna nel pozzo, mentre il rinoceronte esiste veramente e le sue azioni, come le riforme lente e profonde del liberalismo, hanno conseguenze nella realtà. Bravo come sempre, Gopnik mette in scena nel suo Manifesto del rinoceronte la storia del liberalismo moderno e dei suoi arcinemici (prima il cristianesimo in tutte le sue declinazioni, poi i totalitarismi del XX secolo e oggi il radicalismo di sinistra, il conservatorismo di destra e il fondamentalismo islamico) attraverso le avventure dei suoi campioni. Michel de Montaigne, Harriett Taylor e John Stuart Mill, gl’illuministi francesi e i costituzionalisti americani, David Hume e Adam Smith (alla cui amicizia è dedicato Il miscredente e il professore di Dennis C. Rasmussen, appena pubblicato da Einaudi): Gopnik intreccia sapientemente filosofia, idee politiche e storie personali dei fondatori del pensiero liberale in un racconto incalzante. 

Preso in parola, l’umanesimo diventa una storia umana, di donne e uomini che trasformano le idee in esperienze e le esperienze in idee e propositi. Oltre ai grandi pensatori liberali, nel Manifesto del rinoceronte si muovono, come personaggi solo apparentemente secondari in un romanzo-fiume, anche i protagonisti delle avventure e delle grandi campagne liberali: lo schiavo fuggiasco Frederick Douglass, che fu un protagonista della guerra contro la secessione degli stati schiavisti in America; l’anarchica (e in gioventù filoterrorista) Emma Goldman, che vide le streghe nella Russia del comunismo di guerra e che trascorse il resto della sua vita in Canada, da liberale; la grande scrittrice femminista Mary Ann Evans, che firmò beffardamente le sue opere, tra cui il classico Middlemarch, con uno pseudonimo maschile, George Eliot; l’attivista nero Bayard Rustin, ex comunista e omosessuale, che fu la mente (Martin Luther King ne fu il braccio) della marcia su Washington del 1963, protagonista delle lotte non violente per i diritti dei neri e dei gay, emarginato dal «potere nero», scomparso nel 1987. 

Mentre non rimane traccia, a parte le rovine, delle società costruite intorno alle utopie degli unicorni di destra e di sinistra, dei nazionalsocialismi e dei socialnazionalismi, del Terzo Reich come del socialismo in un solo paese, le riforme «lente e profonde» messe all’ordine del giorno dal rinoceronte liberale hanno cambiato il mondo, e lo hanno cambiato in meglio. Nessuno, esclusi gli unicorni di destra, mette più in discussione, due secoli dopo il Saggio sulla libertà che John Stuart Mill dedicò alla memoria di Harriett Taylor, i diritti delle donne, dei neri, dei gay, delle minoranze. Nessuno, a parte gli unicorni di sinistra, disprezza il popolo per le sue arretratezze culturali, per il suo rifiuto della sessualità «fluida», per le sue «opinioni ingenue», perché preferisce le telenovelas alla supercazzola di Jacques Derrida. Se i populisti di destra, «da Donald Trump a Berlusconi», sono tutti «in parte gangster e in parte clown», ci vuole un radical di sinistra, racconta Gopnik, per trasformare le coste del New Jersey nel set d’un film «de paura». Accorsa al salvataggio delle foche, cui è oggi vietato dare la caccia, la sinistra rococò ha fatto un fischio agli squali, che ora infestano quelle acque, cibandosi di foche e di surfisti

martedì 2 novembre 2021

tra ironia e parodia-Paul Watzlawick- Istruzioni per render- si infelici (edito da Feltrinelli):



“È giunta l’ora di farla finita con la favola millenaria secondo cui felicità, beatitudine e serenità sono mete desiderabili della vita. Troppo a lungo ci è stato fatto credere, e noi ingenuamente abbiamo creduto, che la ricerca della felicità conduca infine alla felicità”.

 



Paul Watzlawick è noto per aver scritto

La pragmatica della comunicaìzione umana , uno dei testi fondatoridell’approccio sistemico in psicologia.

Al lettore italiano è tuttavia disponibile un libretto molto interessante e semiserio dal titolo
Istruzioni per rendersi infelici. (edito da Feltrinelli): l’autore tesse un elogio paradossale dell’importanza dell’infelicità e offre una sorta di manuale per costruirsi una vita infelice. 

Per leggere il libro di Watzlawick servono un paio di ingredienti.

Il primo è una grande dose di ironia: evidentemente la sottolineatura del valore dell’infelicità e il genere letterario del manuale sono solo due espedienti letterari per porre la questione della felicità, di cui si fa una sorta di parodia. 
La parodia è uno stile interessante:strappando un sorriso e ingigantendo comicamente le questioni, è capace di porre i problemi sotto angolature originali. Nel sostenere comicamente che l’infelicità è necessaria alla società e che occorre fare di tutto per conservarla, lo psicologo propone un’efficace posizione del problema di una 
strutturale irrisolutezza dei meccanismi sociali, ma nella logica di un superamento.La seconda premessa necessaria alla lettura è
l’autoironia
il libretto, con una scrittura leggera e simpatica, affronta questioni spinose, stili di comportamento consolidati, urgenze di cambiamenti che potrebbero indisporre il lettore che abbia preventivamente blindato la propria personalità, precludendo ogni possibile cambia-mento. 
Per chi si pensa in uno stato di perfezione quasi angelica o per chi ormai è sceso a patti con ciò che lo fa soffrire e preferisce uno stato di accettabile tristezza piuttosto che il rischio di una debordante gioia, le ironie di Watzlawick potrebbero suonare quasi come dissacranti(MANUEL BELLI)

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Paul Watlawick, filosofo e psicologo austriaco, è tra i maggiori esponenti della scuola di Palo Alto, con la quale si occupò di pragmatica della comunicazione. Nato come seguace della psicoanalisi junghiana, fu poi tra i fondatori dell’approccio sistemico.

“Istruzioni per rendersi infelici” è un saggio in cui Paul Watzlawick espone un atipico elogio della felicità che passa attraverso l’analisi dell’infelicità.

“Se siete intossicati per aver seguito scrupolosamente una mezza dozzina di improbabili ricette per la felicità, se ne avete abbastanza dei dissennati consigli di guru e sessuologi, tecnocrati e maestri di vita, delle prediche sull’essere anziché l’avere e sulla pace interiore, questo libro fa per voi. E’ giunta l’ora di farla finita con la favola millenaria secondo cui felicità, beatitudine e serenità sono mete desiderabili della vita. Troppo a lungo ci è stato fatto credere, e noi ingenuamente abbiamo creduto, che la ricerca della felicità conduca infine alla felicità”

Watzlawick esalta tutti quei meccanismi, tipici della quotidianità di ogni essere umano, che gli permettono di essere infelice. Parla di comunicazioni sbagliate, di convinzioni talmente radicate da portare a “profezie che si autoavverano”, di uomini destinati all’infelicità.

Lo fa in modo preciso, analizzando ogni dettaglio che porta l’uomo a credere alla sua infelicità. Lo fa in modo talmente preciso da spingere a credere che in realtà l’infelicità non sia poi così semplice da raggiungere.

Un saggio geniale che si conclude in un modo, forse, un po’ scontato. Raggiunta l’apoteosi dell’infelicità, la soluzione, l’unica e la più semplice è una; quella già trovata da Dostoevskij nei suoi “Demoni”:

L’uomo è infelice perché non sa di essere felice. Soltanto per questo. Questo è tutto, tutto!


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Non si tratta di un testo pessimistico, anzi.

L’intento dell’autore è quello di procedere a rovescio, utilizzando anche i meccanismi dell’ironia. Con questo testo, come dichiara il titolo, si danno istruzioni per essere infelici, con sé stessi e con gli altri. Se la ricetta per la felicità non esiste, anzi è difficile persino definire il concetto stesso di felicità, che appare del tutto soggettivo, capire dove si sbaglia forse è molto più semplice.

Con “Istruzioni per rendersi infelici” Watzlawick analizza e spiega tutti quei meccanismi, spesso inconsci e automatici, attraverso i quali causiamo la nostra stessa infelicità e sofferenza. Mette in evidenza le manie, le fissazioni e quei circoli viziosi che noi stessi alimentiamo, rinunciando alla nostra serenità. Definisce quei comportamenti che mettiamo in atto, giorno dopo giorno, in uno schema prefissato, che non siamo in grado di rompere, e che condizionano pesantemente la nostra stessa esistenza.

In un certo senso, il testo può essere diviso in due parti. Nella prima si discute riguardo i modi attraverso i quali è possibile rendersi infelici “da soli”, in modo autosufficiente. In una seconda parte, invece, si trattano più nello specifico le relazioni di coppia. In questo articolo ci occuperemo dei capitoli relativi all’infelicità autosufficiente. Per l’infelicità di coppia se ne parlerà più avanti, in un secondo approfondimento.

Restare rigidamente fedeli a sé stessi

Il primo capitolo è dedicato a quello che Watzlawick definisce “sublime ideale” per i suoi lettori che cercano una condizione perfetta di infelicità. È una condizione che ci si procura “restando fedeli a sé stessi”, che significa una coerenza portata al limite.

Tutto si basa sulla convinzione che esista un unico punto di vista accettabile e valido: il proprio. Si tratta di una convinzione che porta con sé una estrema rigidità, l’incapacità di scendere a compromessi e di essere più duttile, cercando altre prospettive o soluzioni, chiudendosi a ogni possibilità.

Scrive Watzlawick che tra l’essere e il dover essere, chi pensa e si comporta secondo questo principio sceglie sempre il dover essere, come vorrebbe che il mondo fosse e lo rifiuta per come è nella realtà. In lui la riluttanza diventa persino fine a sé stessa. Arriva a rifiutare i consigli altrui per il solo fatto che si tratta di consigli, anche quando sono espressi nel suo stesso interesse. Nella forma più estrema di questo atteggiamento, si rifiutano persino le proprie stesse raccomandazioni. “Il serpente cioè non solo morde la coda, ma divora se stesso” conclude l’autore.

Essere infelici restando ancorati al passato
Viene poi la parte che Watzlawick intitola “Quattro giochi con il passato”. Si tratta di un interessante capitoli in cui l’autore sviscera tutti quei meccanismi mentali e psicologici che hanno a che fare con il tempo e i ricordi. In primo luogo, uno dei modi attraverso i quali ci si garantisce una dose di dolore quotidiana è l’abitudine a idealizzare il passato, trasfigurandolo nella stagione più bella della propria vita. Così subentra il rimpianto per un’età perduta, che non può più essere recuperata, quella della giovinezza.

In questa dimensioni si può collocare anche la malinconia per una relazione d’amore finita male. Scrive Watzlawick “Resistete alla ragione, alla memoria e ai vostri migliori amici, che con le loro parole vi vogliono far credere che la relazione fosse da tempo mortalmente malata, e che troppo spesso vi siete chiesti in qual modo avreste potuto fuggire da quell’inferno.

Restare ancorati al passato, crogiolandosi nei ricordi, significa anche perdere il contatto con il presente, non avere il tempo di dedicarsi all’oggi. E, di conseguenza, non vedere quel che si ha, quei piccoli momenti di trascurabile felicità che ogni giorno sono sotto i nostri occhi. Ci si comporta come la moglie di Lot, il personaggio biblico che fugge dalla distruzione di Sodoma. A lei l’angelo comanda di salvarsi e non voltarsi indietro. Eppure lei si gira e si tramuta in una statua di sale. Un’immagine che rappresenta perfettamente la condizioni di chi volge lo sguardo verso il passato, rinunciando alla vita presente, alla novità, all’imprevisto.

Alcuni cercano nel passato le cause dei propri mali, seguendo un ragionamento di tipo quasi deterministico. E arrivando, in questo modo, a scansare ogni tipo di responsabilità e a escludere che qualcosa possa cambiare in meglio.

Scrive ironicamente l’autore “Quello che ci cagionarono Dio, mondo, destino, natura, cromosomi e ormoni, società, genitori, parenti, polizia, insegnanti, medici, capi o soprattutto amici, è talmente grave che la minima insinuazione circa il poter fare qualcosa contro tale condizione è già di per sé un’offesa”. È un meccanismo che consente di dare all’infelicità un aspetto definitivo. Di chiudere le porte a qualsiasi cambiamento. E anche nel caso in cui la situazione migliori di per sé, andando a compensare il trauma o la sofferenza che deriva dal passato, aggiunte l’autore, si può “rimediare”. È sufficiente incrociare le braccia e dire “ora è troppo tardi, ora non lo voglio più”, ponendo un freno alla guarigione.

C’è poi un altro meccanismo legato al passato che Watzlawick spiega con la storiella dell’uomo che ha perduto una chiave. Un poliziotto lo vede che cerca intorno a un lampione e si mette ad aiutarlo. Ma non trovano nulla. Alla fine gli domanda se sia proprio sicuro di averla persa in quel punto. L’uomo risponde: “Non, non qui, là dietro; solo che là è troppo buio”. Ostinandosi a cercare nel posto sbagliato, solo perché lì è più semplice muoversi, non troverà mai nulla. Arriverà sempre allo stesso risultato.

È lo stesso comportamento messo in atto dal nevrotico: si ripete in modo incessante una certa azione, un certo schema di comportamento, che deriva da un adattamento precedente, senza che ciò porti alla soluzione del problema che si sta affrontando. Anzi, spesso non si fa altro che complicare ulteriormente la situazione. Eppure, invece di provare ad adottare un’altra prospettiva, a modificare il proprio modo di agire, ci si impegna ancora di più in quello che si sta facendo. Si è convinti, infatti, che l’unico motivo per cui non si riesce a superare la difficoltà è il non essersi dati abbastanza da fare.

Profezie che si realizzano da sé
Tra i meccanismi mentali e le suggestioni passate in rassegna in “Istruzioni per rendersi infelici”, Watzlawick cita anche le profezie che si realizzano da sé. E parte proprio da un classico esempio, quello dell’oroscopo. Un mattina ci si sveglia e si legge il proprio oroscopo sul giornale: mette in guardia sulla possibilità che accada un incidente. Durante la giornata, effettivamente succede qualcosa. La logica conclusione allora è che l’oroscopo sia credibile. Almeno in apparenza.

In realtà, se non avessimo letto quella previsione o non ci avessimo creduto, non sarebbe accaduto nulla.

È sufficiente avere una qualsiasi aspettativa o preoccupazione che viene vissuta non come semplice attesa, ma come una realtà incombente, che si vuole evitare a tutti i costi: un esame che va male, un ritardo, persino un incidente o anche la convinzione che qualcuno parli alle nostre spalle.

L’atteggiamento che assumiamo di fronte a queste situazioni che immaginiamo e che occupano completamente la nostra mente, condiziona lo svolgersi degli eventi. Se, per esempio, riteniamo che gli altri ci prendano in giro, cominceremo a essere sospettosi, diffidenti, magari anche ad aggredire verbalmente qualcuno che pensiamo si stia comportando male alle nostre spalle.

E cominceremo a notare bisbigli, sussurri, mezze frasi, cenni del capo. Tutti segnali che rafforzeranno la convinzione iniziale. Tutti comportamenti che, in verità, derivano dal nostro strano modo di relazionarci con le persone che abbiamo intorno.

La profezia si è avverata.


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