martedì 24 novembre 2020

Fabrizio De André - Fiume sand creek


Foto di gruppo dei capi Cheyenne e Arapaho riuniti a Denver il 28 settembre 1864; Pentola Nera è il secondo da sinistra della prima fila.



Si son presi il nostro cuore sotto una coperta scura
Sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura
Fu un generale di vent'anni
Occhi turchini e giacca uguale
Fu un generale di vent'anni
Figlio d'un temporale
See'è un dollaro d'argento sul fondo del Sand Creek.
I nostri guerrieri troppo lontani sulla pista del bisonte
E quella musica distante diventò sempre più forte
Chiusi gli occhi per tre volte
Mi ritrovai ancora lì
Chiesi a mio nonno è solo un sogno
Mio nonno disse sì
A volte I pesci cantano sul fondo del Sand Creek
Sognai talmente forte che mi uscì il sangue dal naso
Il lampo in un orecchio nell'altro il paradiso
Le lacrime più piccole
Le lacrime più grosse
Quando l'albero della neve
Fiorì di stelle rosse
Ora I bambini dormono nel letto del Sand Creek
Quando il sole alzò la testa tra le spalle della notte
See'erano solo cani e fumo e tende capovolte
Tirai una freccia in cielo
Per farlo respirare
Tirai una freccia al vento
Per farlo sanguinare
La terza freccia cercala sul fondo del Sand Creek
Si son presi il nostro cuore sotto una coperta scura
Sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura
Fu un generale di vent'anni
Occhi turchini e giacca uguale
Fu un generale di vent'anni
Figlio d'un temporale
Ora I bambini dormono sul fondo del Sand Creek


*****

Il fiume Sand Creek scorreva nelle vicinanze di un campo Cheyenne che ospitava quasi seicento indiani, molti dei quali donne e bambini.

All'alba del 29 novembre 1864, il colonnello Chivington fece circondare l'accampamento e, nonostante gli accordi presi in precedenza con gli indiani, comandò l'attacco contro una popolazione inerme che quasi niente fece per reagire. Gli uomini vennero scalpati e orrendamente mutilati, i bambini usati per un macabro tiro al bersaglio, le donne oltraggiate e uccise.

Si racconta inoltre che, appena uditi i colpi dei primi proiettili, il capo della tribù issò una bandiera americana e un vessillo bianco per segnalare agli aggressori che gli indiani non intendevano difendersi. Tale gesto venne completamente ignorato da Chivington e dai suoi uomini che continuarono il massacro.

Questo infame avvenimento costrinse il Congresso ad aprire una inchiesta (1865). I colpevoli non furono però mai puniti e la strage non venne ufficialmente condannata. L'episodio innescò dodici anni di Guerre Indiane che ebbero il loro culmine con l'uccisione del generale George A. Custer a Little Big Horn.

Dopo 136 anni, nel 2000, il congresso americano si scusò con gli indiani per il terribile massacro. Sul luogo della strage verrà posta una lapide per commemorare le vittime.


https://it.wikipedia.org/wiki/Massacro_di_Sand_Creek



mercoledì 18 novembre 2020

IL MAGO DELLA PIOGGIA (RACCONTO SUFI)





La siccità aveva messo in ginocchio un intero villaggio. 

Le scorte d’acqua scarseggiavano. 

Tutti erano angosciati.

E proprio la disperazione fece sì che gli abitanti del villaggio scambiassero un viaggiatore che passava di lì per un mago della pioggia.

«Vi supplichiamo! Fate piovere. Stiamo tutti morendo di sete!»

Insistettero così tanto che il malcapitato viaggiatore non poté negare il suo aiuto. 

Così, dopo aver pensato un po’, dispose che gli portassero un mastello d’acqua. 

Si tolse di dosso la maglia sudicia e iniziò a lavarla.

Gli abitanti del villaggio s’infuriarono.

«Maledetto! Era l’ultima razione d’acqua. Noi stiamo morendo di sete e tu lavi i tuoi sporchi cenci nell’ultimo goccio d’acqua che ci rimaneva. È così che pensi di far piovere?»

L’uomo rispose: «Dovete avere un po’ di pazienza. Non è lavando che si fa piovere, ma è quando si stende il bucato ad asciugare che la pioggia cade sempre a catinelle».



https://www.facebook.com/marioluigiblandino/posts/2131697790296237

lunedì 16 novembre 2020

Nell'Italia perduta del Covid il problema è il pranzo di Natale





Rileggendo il filosofo Cioran salta agli occhi l'ennesimo segno di decadenza dell'uomo occidentale.


https://www.huffingtonpost.it/entry/nellitalia-perduta-del-covid-il-problema-e-il-pranzo-di-natale_it_5fb10591c5b6c5f3d2f83ab3


"Cito qualche riflessione e poi  rimando alla serissima  riflessione


"Un dibattito, questo, sia nel paese che nei palazzi, che stride in modo spiazzante con la cronaca quotidiana dalle trincee del Covid. C’è un evidente e disturbante sfasamento con la sconfortante messe giornaliera di morti, contagiati, ricoveri e terapie intensive. C’è un disallineamento sensoriale con le immagini dei letti improvvisati montati nelle chiese, dei pazienti attaccati alle bombole di ossigeno nelle proprie auto ferme in fila nei parcheggi degli ospedali, dei malati Covid abbandonati morti nei bagni dei pronto soccorso"


giovedì 12 novembre 2020

Mi chiedo: perché Sgalambro per anni ha vissuto con una pistola accanto? di Marcello Faletra

 Mi chiedo: perché Sgalambro per anni ha vissuto con una pistola accanto? La teneva nascosta in uno scaffale della sua biblioteca. Un giorno, mai arrivato, l’avrebbe presa e l’avrebbe fatta finita, per sempre. Non lo ha fatto. Eppure, questa possibilità lo ha accompagnato per oltre cinquant’anni, come mi ha confessato.


Una volta gli chiesi perché non l’avesse ancora usata, e cosa lo avesse portato a rinviare il suicidio. “Il tempo dei suicidi - mi disse - è passato. Ha perso il sapore della sfida. Che dirti…Marcello, davanti alla vita o si vince o si perde. Ti rode come una bestia. Ti insulta. Ti umilia. E a volte quando ti vuole sorridere può essere troppo tardi. Una volta la vita spezzata d’un colpo poteva diventare un’immagine indelebile come una visione metafisica alla Kant. Ma mi diverto lo stesso…con la vita. La fine di una vita come la fine del mondo non sta fuori di noi, ma dentro di noi”.


Liquidarsi dunque significava un precipitare del tempo che ti resta, ma deciso da te, non da altri o da circostanze esterne. Tutto il tempo in una sola volta. Il tempo di una vita in un’illuminazione senza più tempo, con un solo colpo, fatale. Battute del genere gli appartenevano. In fondo a quel gesto ci credeva a metà.


In un mondo, dove il suicidio è colpevolizzato perché dipendente dalla legge del valore - nessuno ha il diritto di sottrarre la propria vita al capitale - esso non può che rappresentare una forma sovversiva di fronte alla mercificazione della vita. “In fondo ogni vita, oggi, non è che una particella di capitale da sfruttare o un resto senza più valore” mi disse durante un pranzo. Forse la sua pistola sta dietro la prima traduzione italiana del Capitale di Marx che stranamente si trova a fianco all’opera di Nietzsche? Ma non importa questo. Importa, invece, che in un certo senso quella pistola per lui era uno stimolante metafisico: integrava le sue incursioni teoriche. Anzi, a volte le rovesciavano con una battuta di spirito. La pistola come i suoi frammenti di pensiero facevano parte dei suoi “capricci”. Animava la sua indifferenza in materia di vita e di morte, verso cui nutriva una diffidenza metafisica, a cui però contrapponeva le illusioni (“non ho mai amato le presunte certezze dei filosofi, io amo le illusioni della metafisica, amo la forma che queste illusioni assumono come una quadro o una rappresentazione teatrale”, mi disse). E in effetti, come ha scritto nel trattatello sul “Delitto”: l’età del suicidio è tramontata, non quella però del capriccio, verso cui era votato. E la vita come la morte, erano per lui sfide di fronte alle quali occorreva esprimere un gesto di libertà dalla vita e dalla morte. Vincendo la paura della morte, questa cessa di esistere.


E quella pistola rappresentava la materializzazione estrema di una libertà senza vincoli. Un atto di volontà senza negoziazioni.


La pistola in compagnia dei libri era la caricatura, la parodia, lo smascheramento del pensiero che si vuole serioso e pedante, come la “filosofia statale” o la “filosofia come passatempo” secondo l’espressione di Schopenhauer, che Sgalambro amava molto. Per lui la filosofia era una questione di onore: “Caro Marcello: un mio piccolo segreto: credo onestamente all’onore della filosofia”; e la pistola altro non era per lui che una caricatura mortale del pensiero. Era diretta contro la sua autorità, rispetto alla quale ne è stato un avversario inattuale.


In fondo la pistola nascosta tra i libri smascherava e rendeva comiche o futili quei pensieri che si vogliono troppo veri, e dunque rasentano la comicità.


La pistola era l’equivalente di un’ammonizione: dopo tutto, anche i più grandi pensieri “marciscono” come un teschio barocco. Tutto un giorno è destinato a finire: questo è stato per Sgalambro la presenza di quella pistola. Quasi come un’icona anticipata dell’irreversibile fine del mondo…Divertiamoci, dunque, prima che sia troppo tardi…


http://www.peppinoimpastato.com/visualizza.asp?val=2115


https://www.artribune.com/author/marcello-faletra/


Descrizione del libro

Se è vero che le vicende della sua vita sono parte integrante dell'importanza di Socrate, si deve comunque dare tutto il rilievo possibile al fatto che egli morì assassinato dichiara perentoriamente Manlio Sgalambro. Tuttavia Platone "omette pietosamente quella parola", e dal canto suo Nietzsche afferma - certo a ragione - che "Socrate volle morire". Ma chi desidera morire, osserva Sgalambro, "si trova intrappolato in una insana contraddizione", giacché nello stesso tempo vuole vivere. E così fu anche per Socrate, che delegò infatti il compito a un "benefattore" (euergetikós) - così egli definì l'assassino - e con ciò introdusse una volta per tutte nella filosofia la figura dell'omicida. Eppure la speculazione filosofica ha per lo più evitato di porsi le domande cruciali che ne derivano: quale mistero cela il delitto in se stesso? Chi è l'assassino nella sua essenza? Domande che invece non teme di affrontare qui Sgalambro, tenace esploratore delle zone impervie del pensiero, spingendo lo sguardo verso quel punto dove l'espressione "'L'uomo è mortale' non significa in primis che 'l'uomo muore' - insigne banalità concettuale -, ma che l'uomo è datore di morte".

venerdì 6 novembre 2020

il vecchio Napayshni -L'anziana giapponese ChigoyoJ- yotiraditya, nella sua giovinezza, è stato un brahmacarya:







di  Leonardo Lenzi


La tribù sta per partire, l'accampamento viene smontato in fretta: occorre seguire gli spostamenti dei bisonti. C'è movimento, eccitazione, grida, risa, bambini, nitriti, rumore di zoccoli e di carriaggi. Eppure il vecchio Napayshni non si muove, è fermo in piedi e guarda la prateria. Il figlio maggiore, Ohitekah, si avvicina, dice Padre, partiamo, ma il vecchio Napayshni non sembra udirlo. Ohitekah comprende. La tribù se ne va, e Napayshni rimane da solo in un silenzio che si fa sempre più denso. E' molto stanco, è malato, sente che la vita gli sfugge da ogni parte. Non ce l'avrebbe fatta a spostarsi ancora, sarebbe stato un peso per tutti - anche se nessuno l'avrebbe mai lasciato indietro. Giunge la sera, il vecchio prepara un piccolo fuoco, così piccolo che può stare tra le sue gambe incrociate, ora che è seduto. Napayshni si avvolge del suo pesante scialle e mormora qualche preghiera, la canta piano piano, in compagnia della voci degli animali notturni. Su di lui vortica immenso lo stellato dell'emisfero boreale, gli astri nitidi come gemme. Ogni tanto un bolide attraversa la volta del cielo. Ed ecco che...

L'anziana giapponese Chigoyo chiama il figlio, che è un uomo robusto, e gli dice che è tempo. Non ancora, madre, dice lui. E' tempo invece, è tempo. Aiutami: voglio incontrare gli dèi. E' tempo, finalmente. In silenzio, il figlio se la carica in spalla e comincia a salire lungo il ripido sentiero che si inerpica lungo la costa di una delle alte montagne della Kita Arupuso, sull'isola di Honshu. Dopo molte ore di cammino giungono a un eremo di pietra molto isolato, vicino a una statua di Jizo Bosatsu. Il figlio depone la madre, si inchina, e rapidamente fa ritorno lungo lo stesso sentiero. fa molto freddo e comincia a nevicare, la statua del santo bodhisattva si copre di bianco, così come i rami degli abeti. Chigoyo siede in meditazione nel suo kimono bianco. Il vento produce mulinelli con la neve che sembrano forme vive. Ed ecco che....

Jyotiraditya, nella sua giovinezza, è stato un brahmacarya: fino a circa venticinque anni visse nella casa del Guru, ai suoi piedi, casto, disciplinato, obbediente, ad apprendere il dharma.  Poi ha lasciato il maestro, si è sposato, ha trovato un lavoro, ha generato figli e figlie, come Grihastha. Poco prima di avere cinquant'anni, avendo restituito alla società ciò che la società gli aveva dato, si è ritirato in un boschetto non lontano dalla sua casa per meditare e per lasciare andare. Ogni tanto la sua famiglia va a trovarlo, e lui gioca con i nipotini e riceve di buon grado le offerte di cibo. Oggi è proprio uno di quei giorni: assieme al padre e alla madre, il nipotino preferito Ehsaan va a trovare il nonno nel suo capanno di frasche nella foresta, e gli porta dei dolcetti di riso che sa che gli piacciono. Arrivati, però, non trovano nessuno. Tutto è in ordine. Con le lacrime agli occhi il bimbo chiede perché il nonno non c'è. E' andato con Dio, risponde il padre, quel padre che ha ormai trent'anni e guarda con un po' di paura e un po' di desiderio il luogo ora vuoto che un giorno sarà lui ad abitare. Con la barba e i capelli rasati, coperto solo con uno scialle arancione, avendo deposto accanto a sé le sue uniche propruietà, il bastone e la ciotola, il vecchio siede sulla riva della Kaveri, nessuno ormai sa chi è, cos'è stato, il suo nome, non è più Jyotiraditya,  ha lasciato tutto, è un Samnyasa, uno dei tanti. Ed ecco che....

Nessuno chiede a questi vecchi di lasciare, eppure essi lasciano. Nessuno chiede loro di andare, eppure essi vanno. Vanno per motivazioni spirituali, perché l'arte della vecchiaia è l'arte del congedo. Vanno anche per ragioni sociali, perché onorano la vita e la giovinezza, e sanno - poichè le hanno per primi ben vissute - che esse sono rette da leggi diverse e per loro ormai inadeguate. Fanno posto, si scostano, prendono altre vie, senza che nessuno glielo chieda e con grande dignità ed eleganza.

Ora qui invece uno deve fare autodafé perché ha proposto - al fine di custodire ET la vita, l'educazione, gli scambi, il commercio, l'arte, i viaggi ET la salute degli anziani - un lockdown selettivo in base all'età. Apriti cielo: si è tirato fuori dall'armadio degli orrori anche il nazismo e aktion T4, non solo oltrepassando le frontiere, ma raggiungendo il cuore del grottesco. E c'è chi preferisce che tutti siano chiusi piuttosto che lo siano alcuni, Ma, in una situazione come questa, noi anziani non abbiamo forse un compito? Il compito di sottrarsi e di lasciare che la vita viva? Devono forse chiederlo, ordinarcelo per decreto? Non dovremmo essere noi, spontaneamente, a compiere, in un modo il più possibile danzante, questo movimento di abbandono?

Qui non si parla di morire nella prateria nordamericana, di incontrare gli dèi sulla montagna giapponese o di perdersi nel grande Tutto indiano. Qui si parla di astenersi dall'andare in giro per via Lorenteggio con occhi cattivi esaltati dalla mascherina egoista ffp2, dal riempire i supermercati, i mezzi di trasporto, etc., e per un tempo limitato a qualche settimana o mese. E naturalmente ci sono gli anziani soli che dovrebbero essere assistiti e aiutati nel loro isolamento. Però. Non c'è, in questo momento, un dovere morale degli anziani di fare qualcosa (o di astenersi dal farla) nel nome del bene comune. Ci ricordiamo l'autunno, l'inverno e la primavera dei nostri quindici anni o dei nostri venti? Cosa daremmo per ritrovarli? Ora, noi abbiamo vissuto molti autunni, inverni, e primavere: ne cederemo uno non per dpcm, ma spontaneamente, di buona grazia,  perché siano i ragazzi a non perdere i loro? Forse anche per noi ci sarebbe un (piccolo) Ed ecco che.

“Sono vecchia e non è un mio problema” di Mario Calabresi

«La gente è diventata troppo seria, io ho 91 anni ma ho la fortuna di essere molto ironica, così non mi accorgo della presenza della morte che mi osserva da vicino pronta a prendermi, e la mattina continuo ad alzarmi contenta». Mi siedo di fronte a Natalia Aspesi nell’ultimo giorno possibile prima del nuovo lockdown, nella sua casa invasa dai libri. Teniamo sempre la mascherina, ma la sua voce inconfondibile e la sua ironia sono intatte. Natalia è stata inviata di cronaca e costume per “Il Giorno”, critica cinematografica per “Repubblica”, ma è soprattutto una strepitosa raccontatrice degli esseri umani, animata da una curiosità che non ha mai ceduto al cinismo o al disincanto. Sono venuto a trovarla per parlare di vecchiaia al tempo della pandemia, in un’epoca in cui si può sentir dire che: «Gli anziani non sono indispensabili allo sforzo produttivo del Paese». Natalia non si fa pregare e non ha falsi pudori, si definisce “vecchia” e non cerca di mitigare il passare del tempo addolcendo le parole.




Natalia Aspesi (ritratto di Marta Signori)

«Che gli anziani non servissero a mandare avanti il Paese forse poteva essere vero un tempo ma se oggi guardo all’età di molti grandi industriali, architetti, professori, scienziati, spesso vedo settantenni e anche ottantenni. Potrei dirti che chi lo ha detto è un cretino, ma invece ti dirò che è stato utile: ha rotto un’ipocrisia, perché è vero che diamo fastidio. Ci chiamano nonnini, nonnetti, a parole ci vezzeggiano ma poi ci mettono, prima di metterci nelle Rsa, nella tomba. L’ipocrisia sui vecchi è tremenda, se non ci salviamo da soli è l’inferno. Ogni giorno vedo ciò che accade intorno a me e come vengono considerate le persone della mia età».

E che cosa vedi?

«Che diamo fastidio perché costiamo, perché siamo una spesa medica e sociale, perché prendiamo le pensioni, perché occupiamo posti negli ospedali e case o abitiamo in quelle dei figli e magari abbiamo la colpa di continuare a fare un lavoro. Io ho una rubrica delle lettere sul “Venerdì di Repubblica”, a un certo punto qualcuno ha cominciato a scrivermi, una minoranza per carità, che era tempo che lasciassi posto ai giovani. Nello stesso momento lo stesso pensiero è passato per la testa di colleghe più giovani. Io non mi considero inamovibile, se mi dicessero che le mie cose non interessano più, che sono rimbambita, non più capace di scrivere o fuori tempo allora farei subito un passo indietro, ma non per una questione anagrafica, non perché sono vecchia. Non è una colpa».

Tu però non sembri curartene troppo di queste critiche e di chi cerca di prendere il tuo posto.

«Ho la fortuna di aver sempre lavorato e risparmiato e di poter essere ancora indipendente, ma te lo ripeto: i vecchi danno fastidio e la gente non accetta che possano ancora lavorare. Dieci anni fa, quando avevo appena passato gli 80, un giorno un giovane tassista che aveva sentito che parlavo di impegni di lavoro al telefono, alla fine della corsa mi chiese: “Ma lei ancora lavora? Ma non è tempo di smettere e riposarsi? Che cosa fa?” Risposi: “Sa, sono una cuoca, continuo a cucinare”. A quel punto lui disse: “Ah, allora ok”. Se stai in cucina può andare bene, non disturbi troppo…».



Che cosa invece provoca più fastidio a te?

«Ti regalo una notizia: non tutti i vecchi sono sordi! Questa è un’altra cosa che mi fa impazzire, ti parlano e gridano o scandiscono le parole, come se fossi sorda o rincretinita. Ci trattano come i bambini e ogni frase finisce con il sorriso. Poi ci sono quelli che vogliono rassicurarti e con tono consolatorio ti dicono: “Dai, che vivrai fino a cent’anni”. Ma fatti gli affari tuoi, io non ho futuro ma ho un bellissimo passato, ho vissuto nell’Italia meravigliosa della ricostruzione e del boom economico e sono piena di memorie che mi tengono compagnia, non ho bisogno di compassione».

E tu, da giovane, come guardavi al mondo degli anziani?

«Io, da giovane, i vecchi nemmeno li vedevo, non ho mai conosciuto i miei nonni e vivevo sempre tra i miei coetanei. Quando avevo 16 anni ricordo che i miei amici erano tutti innamorati di una ragazza bellissima che di anni ne aveva 26, io ero stupita e continuavo a chiedere: ma come fa a piacervi una così vecchia?! Quante cose ho visto, durante la guerra ho assistito al matrimonio di una mia amichetta che aveva 14 anni e che aveva avuto la dispensa dal vescovo per sposarsi con un ragazzo che partiva per il fronte. Mi piacciono tanto le storie del passato, le conservo con cura, ma senza alcun rimpianto».

Perché non scrivi un’autobiografia?

«Non ci penso nemmeno, non ne ho nessuna voglia e penso non interesserebbe a nessuno. E poi non mi piace scrivere libri, la mia capacità di raccontare si ferma a 80 righe, la dimensione dei miei articoli. A me i libri piace leggerli».


Mimma, la gatta di Natalia Aspesi

Mentre parliamo ci raggiunge la sua gatta, si sdraia sul divano: «Si chiama Mimma, è vecchia anche lei, ha 17 anni, e mi adora». Accanto a sé Natalia ha appoggiato un bel bastone istoriato. «Porto sempre con me il bastone quando esco, mi aiuta a camminare ma serve anche molto, non tanto per difesa quanto per offesa, mi è utile con i giovanotti maleducati o con i vecchi che non sanno stare al mondo. Poche settimane fa, durante il mio piccolo giro intorno a casa, ho dato dei soldi a un ragazzino africano. Un signore mi ha vista e ad alta voce ha cominciato a criticarmi, dicendo che venivano dall’Africa per colpa di gente come me che li mantiene e li foraggia; gli sono andata incontro mentre continuava a criticarmi, ho alzato il bastone e gliel’ho messo sotto il mento e gli ho detto soltanto: “Non permetterti di dire un’altra parola, fascista”. Si è dileguato».

Come vivi oggi?

«Vivo alla giornata, la mia vita comincia la mattina quando mi sveglio e finisce quando vado a letto la sera, sperando sempre di morire nel sonno. Sai, io non sono vecchia, non sono un’ottantenne, io sono ultra-vecchia, penso spesso che potrei avere un figlio di più di settant’anni».

Come sono le tue giornate?

«La mia giornata era sempre uguale da alcuni anni, mi alzavo alle sette, andavo a fare una passeggiata, tornavo a casa, mi lavavo, facevo colazione e poi cominciavo a lavorare. Certo, il virus ha cambiato anche la mia vita, perché non vado più nei negozi, non faccio più la spesa, ma alla mia età molto era già cambiato, mi ero adattata a trascorrere la gran parte del tempo in casa, passati i novant’anni dove vuoi che vada?»

Come dividi il tuo tempo, come riesci a scrivere ancora così tanto?

«Dopo la colazione mi metto al computer e controllo le mail, poi sfoglio velocemente i giornali – “Repubblica”, “Corriere”, “Fatto”, “Foglio” e “New York Times” – e guardo il sito del “Guardian”, ma senza leggere niente, giusto per farmi un’idea. La mattina è dedicata al lavoro e alla scrittura. Leggo poi dopo pranzo, mi metto sul letto seduta e mi dedico soprattutto alle pagine di cultura e spettacoli, niente economia e sport, di cui non capisco nulla, un po’ di mondo, quasi mai la cronaca, che è stata uno degli amori della mia vita, perché la trovo troppo cupa e truculenta, priva di umanità, e poi poca politica perché mi arrabbio ancora molto. Non ho mai imparato a prendere le cose con un po’ di filosofia e distanza. La politica di oggi è troppo lontana dalla mia mentalità, io a uno che governa chiedo scelte, decisioni, atti, e a chi sta all’opposizione critiche vere e proposte, non recite sterili: foto di panini, vacanze, gite in bicicletta, fidanzate, tutta la parte social per me è oscena. Ma probabilmente sono soltanto vecchia e il nuovo pubblico ama questo spettacolo».



E la sera cosa fai?

«Da quando è arrivata la pandemia non esco più e vado a letto alle otto, prima uscivo tre sere alla settimana per andare al cinema o a teatro, l’ultima volta è stato il 22 febbraio per andare alla Scala, alla Prima, e in questo caso anche ultima, del “Turco in Italia” di Rossini con la regia di Roberto Andò. Da allora sono stata rispettosissima di regole e consigli e non esco più, solo un piccolo giro quotidiano dell’isolato».

Hai paura di ammalarti?

«Non ho nessuna preoccupazione per me, ma per le persone che conosco».

Dicevi che vai a letto molto presto.

«E ho i miei riti: guardo una puntata di una serie di Netflix, mai più di una. Con Netflix faccio il giro del mondo: guardo serie di ogni nazione, dalla Polonia all’Arabia Saudita, dalla Danimarca all’India. Amo scoprire cose che non immagino. Poi, ogni sera leggo un libro, mai libri di lavoro, sempre per piacere, fino alle 11. Non leggo quasi più romanzi, salvo che siano dei classici, per esempio Tolstoj, preferisco i libri di storia, mi è piaciuta tantissimo la trilogia sulla vita di Thomas Cromwell scritta da Hilary Mantel. Ma leggo tantissimo, libri italiani, inglesi, americani, sono in combutta con la libreria Hoepli e loro mi mandano dieci libri alla volta, li chiamo ogni mese per avere gli ultimi titoli internazionali. Spesso mi sveglio durante la notte e allora guardo Facebook e Instagram, rispondendo gentilmente alle persone curiose e intelligenti e villanamente agli scemi e poi leggo ancora qualche pagina».

Sei circondata dai libri e sembrano essere loro il grande amore della tua vita.

«A chi è giovane oggi vorrei dire: “Svegliatevi, informatevi, leggete libri, è una cosa che costa poco, puoi fare da solo e riempie di gioia”. Non è mai tempo perso!»

Che cos’è la libertà per te?

«Per me la libertà è fare quello che voglio, nei limiti della mia età e delle mie energie, ma è qualcosa che sta nella testa. A me questi che rivendicano la libertà di non mettere la mascherina mi sembrano dei deficienti, le libertà sono dentro di noi, non fuori».

Quale sarà la prima cosa che farai quando sarà finita la pandemia?

«Andrò a fare la spesa, scenderò dall’ortolano a scegliere la verdura. Adoro fare la spesa ed è una cosa che mi manca tantissimo. Poi guarderò sul giornale se c’è un bel film quella sera andrò al cinema e vorrei avere ancora l’occasione di tornare alla Scala. Intanto cerco di arrivare a stasera».



mercoledì 4 novembre 2020

Quel che resta di un maestro di Mario Calabresi

Nel caos di questo tempo e di questa settimana, con il ritorno del virus e, in Francia, del terrorismo islamico, ho seguito un filo che ci parla del rapporto tra passato e futuro e di quanto sia prezioso avere buoni maestri. Albert Camus, premio Nobel per la Letteratura 1957, dopo aver ricevuto la notizia del conferimento del più alto riconoscimento per uno scrittore decise di mandare una lettera al suo maestro elementare, Louis Germain, per esprimergli riconoscenza. La lettera, commovente nella sua sincerità, è apparsa sul profilo Twitter dell’Eliseo il 21 ottobre, giorno dell’omaggio della Francia alla memoria di Samuel Paty, l’insegnante assassinato da un giovane estremista islamico




La lettera originale di Albert Camus dal profilo Twitter della Presidenza della Repubblica francese
Il 19 novembre 1957

Caro maestro Germain,

ho lasciato che si spegnesse un po’ il rumore che mi ha avvolto negli ultimi giorni prima di rivolgermi a Lei e parlarLe con tutto il cuore. Mi è appena stato fatto un onore fin troppo grande, che non ho né ricercato né sollecitato. Ma quando ho appreso della notizia, il mio primo pensiero, dopo mia madre, è stato per Lei. Senza di Lei, senza quella mano affettuosa che Lei porse verso il ragazzino povero quale ero, senza il Suo insegnamento e il Suo esempio, niente di tutto ciò sarebbe successo. Non mi lascio impressionare oltremodo da questo tipo di onori, ma questo è per lo meno un’occasione che colgo per dirLe ciò che Lei è stato, e che continua a essere per me, e per assicurarLe che tutti i Suoi sforzi, il Suo lavoro e la generosità di cuore con cui l’ha svolto sono ancora vivi in uno dei Suoi piccoli scolari che, nonostante l’età, non ha mai smesso di essere il Suo allievo riconoscente.

La abbraccio, con tutte le mie forze.

Albert Camus


lunedì 2 novembre 2020

ALLA BANDIERA ROSSA DI PASOLINI. -ringraziando Francesco Virga



ALLA BANDIERA ROSSA DI PASOLINI.                 


 "Per chi conosce solo il tuo colore, bandiera rossa, tu devi realmente esistere, perché lui esista:

Chi era coperto di croste è coperto di piaghe,  il bracciante diventa mendicante, il napoletano calabrese, il calabrese africano, l'analfabeta una bufala o un cane.

Chi conosceva appena il tuo colore,

bandiera rossa,

sta per non conoscerti più, neanche coi sensi:

tu che già vanti tante glorie borghesi e operaie,

ridiventa straccio, e il più povero ti sventoli".



Alla bandiera rossa

da La religione del mio tempo , 1961

  Pier Paolo Pasolini



Artist:

Renato Guttuso (Italian, 1911–1987)Title:

Ragazzo che urla con bandiera rossa (Lo scugnizzo delle quattro giornate) , 1953–1953