venerdì 19 giugno 2020

Ritorno a casa di Pasquale Guerra https://www.indiscreto.org/ritorno-a-casa/



JACOB LAWRENCE, THE MIGRATION OF THE NEGRO, PANEL 1, 1941


La vecchia carretta del mare stava attraccando al molo 3 di Porta di Massa, settore grandi traghetti. Le operazioni di attracco sembravano lente, infinitamente lente.

Kadi fumava nervosamente, poi lanciò uno sguardo di complicità e Halal si mosse verso il molo.

Dopo interminabili minuti si materializzarono due corrieri. Portavano un trolley e un gran borsone sulle spalle. Si diressero verso il bar, un chiosco a ridosso del molo con un enorme cartellone pubblicitario in cima – reclamizzava una locale miscela di caffè arabica al cento per cento! Ordinarono un caffè, poi lasciarono la postazione e i trolley e i borsoni e Kadi ed Halal presero il loro posto. Uno scambio eseguito alla perfezione, come altre volte, mentre una fiumana di turisti si lasciava andare a quella brezza del primo fine settimana di giugno, proprio in coincidenza con la festa della Repubblica. Un poliziotto svogliatamente pattugliava le biglietterie per le isole, un suo collega chiacchierava con un parcheggiatore abusivo.

I corrieri avevano fatto perdere le loro tracce, forse all’interno della Caremar delle 7:40 diretta a ischia, o sull’Angelina Lauro delle 7:45 pronta per Capri.

Halal salì sulla Ford Escort parcheggiata davanti al teatro Mercadante, in piazza Municipio, Kadi si diresse verso via Marina: aveva lasciato una Golf grigia nei pressi di un benzinaio. Attese qualche minuto e poi raggiunse l’auto di Halal, la superò e prese per la galleria che da via Acton portava alla Riviera di Chiaia. Da lì salirono verso il Vomero. La tangenziale li avrebbe immessi sulla Caserta-Roma e il gioco era fatto.

Kadi era fin troppo sicuro di sé: un tragitto di innumerevoli volte, ormai collaudato. Halal era al suo primo viaggio e non nascondeva una certa apprensione. Al casello di Caserta Nord si fermarono come da copione per accogliere due ragazze anch’esse complici: ora il viaggio poteva proseguire indisturbato fino a destinazione.

Velocità da crociera, un viaggio che non avrebbe destato sospetti: erano giovani in partenza per una breve vacanza nel cuore verde d’Italia.

Halal rispondeva a qualche sollecitazione di Samira ma il pensiero era a quella sua prima trasferta, alla famiglia lasciata qualche giorno addietro… Seguì l’auto di Kadi sulla A1 fino all’uscita di Orte. Una coda di auto, abbandonata la capitale in preda ai festeggiamenti nazionali, cercava refrigerio verso l’Umbria: Todi, Perugia, Norcia erano le città favorite ma anche il lago Trasimeno aveva il suo fascino.



Giugno si era presentato particolarmente incerto dopo il gran caldo fuori stagione di quel finire di maggio. La pioggia fitta aveva reso un acquitrino il grande piazzale nei pressi del carcere di Capanne.

Marta aveva parcheggiato la sua vecchia Panda accanto ad altre auto ma bene in vista e in modo da scorgere l’arrivo delle amiche. Mancavano ancora venti minuti all’appuntamento, lei era di una puntualità estrema, anticipava tutto e tutti.

Una monovolume Fiat rosso amaranto fece capolino in quei paraggi: mancavano ormai pochi minuti. Simona cercò di scusarsi, aveva fatto un lungo giro tra casa di Elena e Teresa che abitava a Sant’Erminio, dall’altra parte della città. Si salutarono in fretta e varcarono il primo ingresso dove gli agenti di custodia controllavano documenti e prenotazioni. Erano in molti in fila per quell’evento che si annunciava straordinario: i quotidiani locali avevano dato gran risalto alla conclusione del laboratorio teatrale di Vittoria Dessy con venti detenuti. Un altro controllo, poi l’accoglienza e il saluto della direttrice del carcere che, grazie anche al magistrato di sorveglianza, aveva organizzato l’evento.

Poi in sala le luci si spensero e Andrea fece l’ingresso da una delle porte situate sul retro. Con il microfono e la voce incerta raccontava la sua vicenda: 28 anni, spaccio per arrotondare, piccoli furti, non aveva un lavoro. Poi Saber, egiziano di mezza età, estorsioni ai danni di alcuni locali in centro. Ahmed, dentro anche lui per spaccio. Abdel Halim, 32 anni, furti in appartamento, tentativi di violenza. Mohammed, marocchino, 60 anni, tentato omicidio a seguito di una rapina finita male. Altri ancora e poi Halal, tunisino, 23 anni, spaccio di stupefacenti, violenza su ufficiali della Finanza. Quasi trenta minuti di racconti di vita, pezzi di storie frantumate e pagine di García Lorca, Silone, Leopardi, Gibran e Tagore.

Marta era tutta presa da quella atipica perfomance e aveva fatto particolare attenzione alla vicenda di Halal, alla sua struggente storia: in Italia da meno di un anno, venuto per spacciare a Perugia. in cerca di un lavoro che poteva dargli facili e grossi guadagni, era stato contattato nel suo paese da coetanei di strada, reduci da trasferte in Umbria. Durante un avventuroso viaggio tra Napoli e Perugia, la sua auto era stata fermata per un controllo al casello di Orte. Era il 2 giugno. L’auto civetta, guidata dal suo compagno di affari, aveva destato sospetti ma era riuscita a far perdere le proprie tracce; quella di Halal, invece, era stata fiutata dalle unità cinofile della Finanza e, dopo un tentativo violento di opporsi agli ufficiali, lui era stato portato via con la sua ragazza, dopo che nel trolley e borsone erano stati rinvenuti quantitativi di droga pronti per il mercato.

Era stato il primo viaggio di Halal e quella drammatica conclusione aveva interrotto improvvisamente il sogno di portare a casa denaro pulito per avviare una attività dignitosa. Venne portato a Capanne dopo un procedimento per direttissima, della ragazza perse invece ogni traccia.

Marta aveva prestato attenzione a quel racconto, alla diversità dagli altri detenuti.

Ritornò a Capanne una seconda volta, previo una serie di permessi che era riuscita a ottenere da un suo amico in Questura. Per Halal era una inspiegabile situazione, non riusciva a capacitarsi. Cosa cercava quella ragazza? Al suo paese sarebbe stato tutto inammissibile. Ma era pur sempre un contatto familiare, una carezza di umanità.

Gli spostamenti della ragazza, in realtà, non passarono inosservati: vecchi compagni di strada del giovane tunisino la tenevano d’occhio. Un pomeriggio, mentre era sul tratto di strada che dal bivio di Castel del Piano e Pilonico portava a Capanne, Marta si accorse di un furgone grigio e blindato che la seguiva e, in un sorpasso, come se volessero portarla fuori strada. Forse solo suggestione o stanchezza dopo una lunga giornata in panetteria. Però quell’auto l’aveva già notata nei pressi di casa e l’aveva ritrovata più di una volta all’uscita del carcere. Non ne parlò ad Halal ma al suo amico, sì. Gianfranco prese nota di tutto e le raccomandò prudenza: la vicenda del suo tunisino e tutto il resto avrebbero potuto portare a delle sorprese. Bisogna fare attenzione. E di fatti, al mattino seguente, trovò l’auto con le quattro gomme inutilizzabili: avevano lavorato indisturbati durante la notte, l’abitazione della ragazza era situata in una traversa della Pievaiola, nei pressi di un famoso ristorante.

Marta, come era nel suo carattere, non si perse d’animo. Andò al lavoro con i mezzi pubblici e, su sollecitazione di Gianfranco, denunciò l’accaduto. E continuò ad andare in carcere, ormai era un appuntamento cui non avrebbe voluto derogare per nessun motivo al mondo. Aveva preso in prestito l’auto di Simona, quando l’amica era di turno in ospedale.

Halal non aveva fatto misteri della sua famiglia: le raccontò del padre, operaio alla manutenzione di un oleodotto con un compenso irrisorio nonostante il duro lavoro e i pericoli cui andava incontro. La madre si era data con le due figlie più piccole a lavoretti artigianali (borse e altre confezioni per turisti). Lui aveva, invece, cercato fortuna in italia: gli avevano parlato di Perugia, del giro e dei quattrini con quei clienti sicuri e affamati di polvere bianca che avrebbero permesso a lui e alla sua famiglia di vivere dignitosamente. Quanti suoi coetanei erano venuti in Italia e in Umbria. Conosceva a menadito il centro storico del capoluogo, via Ulisse Rocchi e le traverse nei pressi della chiesetta di Santa Elisabetta, via del Verzaro e dell’Aquilone, e quelle che da piazza San Paolo scendevano a San Francesco al Prato. Sulla mappa della città aveva contrassegnato ogni luogo di scambio e di smercio, orari e itinerari di fuga, luoghi in cui nascondersi, un rifugio fino a quando le acque non si fossero calmate.

L’esperienza del carcere gli aveva frantumato, dunque, ogni progetto. Annalisa e Marco, due educatori, lo avevano coinvolto nel laboratorio teatrale di Vittoria. All’inizio comprensibile diffidenza e assenze strategiche – nessuno poteva costringerlo a quella attività. Vittoria, però, aveva toccato le corde giuste: gli aveva parlato di un viaggio a Tunisi prima della maturità e poi anche negli anni universitari, come guida per conto di una agenzia perugina. Parlava di tradizioni e luoghi che lui riconosceva perfettamente e che per altro tempo ancora non avrebbe rivisto. E Marta: perché si ostinava con quegli appuntamenti settimanali? Era così inusuale che qualcuno si interessasse a lui.

intanto la ragazza continuava a essere oggetto di pedinamento. Una notte, poi, sentì del trambusto come se qualcuno stesse forzando l’ingresso di casa. Si spaventò non poco ma trovò subito il coraggio di chiamare al cellulare il suo amico Gianfranco, in questura, e poi, in un francese abbastanza fluido e sicuro, aveva urlato allo sconosciuto. Si svegliarono i vicini, contrariati e soprattutto insospettiti, con altre urla e minacce.

Marta ebbe solo il tempo di distinguere l’auto che cercava una via di fuga dopo quel tentativo fallito in partenza. Gianfranco, giunto con un collega, riuscì a localizzare l’auto e a prendere uno dei due malviventi, mentre l’altro guadagnava la fuga a piedi tra i campi.

Nemmeno di quell’episodio parlò ad Halal.

Trascorse ancora un altro anno e il giovane riuscì a guadagnare un regime di semilibertà: per il suo comportamento poteva godere di un abbrevio di pena. Marta gli aveva procurato un alloggio e un piccolo impegno lavorativo presso una organizzazione umanitaria che faceva capo a una simpaticissima coppia, Luigina e Aldo, due formidabili coniugi che per una vita avevano fatto volontariato proprio in carcere e ora che erano in pensione si erano trasferiti nel centro di Montemorcino, un vecchio casolare che avevano fatto ristrutturare anche grazie al sostegno di enti e della stessa Caritas.

Luigina e Aldo accolsero Halal con familiarità, come facevano in generale con tutti gli ex detenuti. Gli avevano procurato degli abiti nuovi e quanto sarebbe stato a lui necessario per una vita dignitosa. Tornava a Capanne per gli obblighi dovuti alla sua nuova situazione, poi il suo mondo era a Montemorcino: aveva imparato a cucinare e collaborava con i due coniugi, ormai la sua nuova famiglia, come interprete per casi di connazionali finiti in Tribunale e poi in carcere a chiudere i conti con la giustizia.

Marta era lì da loro, alla sera. Soprattutto la domenica poteva fermarsi senza gli impegni lavorativi.

Halal non tornò più in Tunisia. i genitori erano scomparsi da non molto e le sue sorelle, contratto matrimonio con dei connazionali, si erano stabilite in un’altra zona del paese.

A Perugia il ragazzo aveva trovato, invece, un lavoro sicuro e una famiglia. E Marta che gli voleva bene.



Era trascorso un bel po’ di tempo, quando una sera – era novembre – giunse non proprio inaspettata la notizia che per Aldo non c’era più niente da fare. Un arresto cardiaco aveva spento la tempra di un uomo straordinario. Luigina se n’era andata l’anno prima e l’amato consorte non aveva sopportato quella forzata solitudine: una vita trascorsa insieme, accanto a lotte, vittorie e qualche digerita sconfitta.

Il giorno delle esequie tantissima gente assiepava le navate della chiesa di Castel del Piano, altra se ne stava sul sagrato, in attesa. Don Francesco ebbe parole commosse per Aldo, così come il direttore del carcere e i rappresentanti dell’associazionismo e del volontariato.

Halal stringeva la mano della sua Marta. La piccola Annie era in silenzio e smarrita in braccio alla madre: aveva gli occhi chiari e i capelli ricci di Halal.

mercoledì 17 giugno 2020

Il principe contadino e il mandorlo...



C’era una volta un contadino che viveva in una fattoria dove si curava del suo orto. Il suo fazzoletto di terra era piccolo, poco fertile e gli dava tanto lavoro e soltanto qualche frutto, che però era succoso, buono e bello. Le erbacce erano tante e tanti gli insetti da eliminare. 

In compenso c’erano molti amici pronti ad aiutarlo: mucche che gli davano il loro latte, cani fedeli, gatti affettuosi, galline che, pur starnazzando tanto, facevano anche tante uova, un’abbondanza di uccelletti che cantavano. C’era anche qualche cornacchia, molte gazze ladre, tante pecore e molti asini. 

La fattoria era circondata da un recinto altissimo: un muro costruito con una pietra liscia. 

Proprio al centro dell’orto campeggiava un grande mandorlo. Così viveva quel contadino. 

E mentre si curava delle sue piantine e della sua terra, guardava il recinto di pietra.

Poi un giorno decise di scalarlo. Arrivò in cima con gran fatica. Vide, guardò e osservò. Ampi e colorati erano i prati. Fiori di tutti i tipi, alberi, campi, corsi d’acqua e valli scoscese si perdevano all’orizzonte unendosi a un cielo terso che sembrava non avere mai fine. 

Il suo orto da quel momento gli sembrò ancora più piccolo e infertile, incapace di donargli la bellezza che aveva visto oltre il muro e i suoi amici sembravano muti, mentre le galline starnazzavano di più e le gazze sembravano moltiplicarsi e le pecore e gli asini sempre più pecore e sempre più asini. 

Decise. 

Prese i semi delle sue piantine più preziose e li mise in tasca per piantarli altrove. Cercò anche di estirpare le radici del suo mandorlo per portarlo con sé, ma non ci fu nulla da fare. 

Decise di lasciarlo lì. 

Prese soltanto qualche ramo. Con fatica si arrampicò di nuovo su per il recinto e con fatica ridiscese dall’altro lato. A testa alta si diresse verso il nuovo mondo. Dopo qualche anno le sue piante erano cresciute e avevano dato frutti buonissimi e lui da contadino era divenuto un piccolo principe. La sua casa era un castello e tutti lo rispettavano e stimavano. 

Ma per quante ricchezze avesse accumulato rimaneva sempre nel suo cuore l’eco della fattoria e del suo piccolo orto abbandonato. 

Un’eco che all’inizio era flebile, quasi impercettibile, ma con gli anni era divenuta sempre più forte, sino a farsi potente. 

Così un giorno decise di tornare. 
I suoi amici lo accolsero con gioia, festanti e allegri. Qualcuno non c’era più, qualcun altro era cresciuto, qualcun altro ancora aveva scalato il recinto di pietra liscia e non era tornato. 

Si diresse con l’animo pieno di gioia verso il suo orto. 

Non era rimasto che un cumulo di terra. Tutto era rinsecchito, inaridito, avvizzito, sfiorito. I sogni che aveva fatto mentre zappava erano stati inghiottiti dalla sua terra; il futuro che aveva immaginato, mentre estirpava le erbacce e imparava a riconoscere i segni del tempo, non si era mai avverato; 

il mandorlo, di cui si era curato e che avrebbe voluto portare con sé, era sempre lì, triste e solitario. Le rughe scavavano il tronco e le radici erano ancora imprigionate in quelle zolle indurite. 


«Non ti ho potuto portar via», gli disse. 
«Mi dispiace», aggiunse in lacrime. 


Il vento fece fremere la chioma e arrivò alle sue orecchie come un lamento che si tradusse in parole:


«Vivrò qui per l’eternità e sopravvivrò alla tua morte umana. Sono il testimone del tuo viaggio. Mi sono abbeverato delle tue lacrime e del tuo sudore straniero e la mia corteccia si è indurita con il tuo dolore, i miei frutti sono nati a ogni tuo successo, ma i miei fiori non sbocciano mai perché mai piena è ogni tua gioia. Io sono le tue radici, il tuo passato e il tuo presente. 

Per quanto altrove tu abbia cercato il tuo futuro, oltre quel recinto, qui è rimasto quello che non sei stato, che avresti potuto essere, qui è rimasto quello che sei. Io sono ciò che non potrai innestare, ciò che non puoi sradicare, ciò che ti farà sempre esule». 


Il principe contadino pianse. Abbracciò il tronco ritorto del mandorlo, andò via e non tornò mai più. 

Molti anni dopo il principe contadino morì e le ceneri, per sua volontà, vennero sparse proprio alla base del mandorlo.


Un epitaffio, inciso su una pietra liscia, fu posto al suolo: «Ritorno terra alla mia terra per riabbracciare le mie radici». 


Ancora oggi, in quella città lontana, c’è una zolla di terra inaridita e un mandorlo solitario con le radici conficcate nella desolata gleba, adesso fiorisce ogni anno ed è circondato da un recinto altissimo di pietra liscia.