sabato 26 settembre 2020

Il monologo “No, Grazie!” – CYRANO DE BERGERAC.



Il monologo “No, Grazie!”


CYRANO DE BERGERAC

di Edmond Rostand

Atto II, Scena 8


******


“Orsù che dovrei fare?….

Cercarmi un protettore, eleggermi un signore,

e come l’edera, che dell’olmo tutore

accarezza il gran tronco e ne lecca la scorza,

arrampicarmi, invece di salire per forza?

No, Grazie!


Dedicare, com’usa ogni ghiottone,

dei versi ai finanzieri? Far l’arte del buffone

pur di vedere alfine le labbra di un potente,

schiudersi ad un sorriso benigno e promettente?

No, Grazie!


Saziarsi di rospi? Digerire

lo stomaco per forza dell’andare e venire?

Consumar le ginocchia? Misurar le altrui scale?

Far continui prodigi di agilità dorsale?

No, grazie!


Accarezzare con mano abile e scaltra la capra,

e intanto il cavolo innaffiare con l’altra?

E aver sempre il turibolo sotto dell’altrui mento,

per la divina gioia del mutuo incensamento?

No, grazie!


Progredire di girone in girone,

diventare un grand’uomo tra cinquanta persone,

e navigar con remi di madrigali, e avere

per buon vento i sospiri di vecchie fattucchiere?

No, grazie!


Pubblicare presso un buon editore,

pagando, i propri versi! No, grazie dell’onore!

Brigar per farsi eleggere papa nei concistori

che per entro le bettole tengono i ciurmatori?

No, grazie!


Sudar per farsi un nome su di un picciol sonetto

anziché scriverne altri? Scoprire ingegno eletto

agl’incapaci, ai grulli; alle talpe dare ali,

lasciarsi sbigottire dal rumor dei giornali?

E sempre sospirare, pregare a mani tese:

Pur che il mio nome appaia nel Mercurio francese?

No, grazie!


Calcolare, tremar tutta la vita,

far più tosto una visita che una strofa tornita,

scriver suppliche, farsi qua e là presentare?…

Grazie, No! Grazie…No!

…Grazie… No!


Ma,

Cantare, Sognar sereno e gaio, libero indipendente,

aver l’occhio sicuro e la voce possente,

mettersi quando piaccia il feltro di traverso,

per un sì, per un no, battersi o fare un verso!


Lavorar, senza cura di gloria o di fortuna,

a qual sia più gradito viaggio, sulla luna!

Nulla che sia farina d’altri scrivere, e poi

modestamente dirsi: ragazzo mio, tu puoi


Tenerti pago al frutto, pago al fiore, alla foglia

pur che nel tuo giardino, nel tuo, tu li raccolga!

Poi, se venga il trionfo, per fortuna o per arte,

non dover darne a Cesare la più piccola parte,


Aver tutta la palma della meta compita,

e, disdegnando d’essere l’edera parassita,

pur non la quercia essendo, o il gran tiglio fronzuto

salir, anche non alto, ma salir……..senza aiuto!”


https://francescodipalo.wordpress.com/2015/05/08/il-monologo-no-grazie-cyrano-de-bergerac/


venerdì 18 settembre 2020

I "Grandi Vecchi" della Repubblica Francesco De Bartolomeis 102 anni è tra i padri della pedagogia in Italia.




La capoccia e la creatività

18 settembre 2020 | diMario Calabresi

https://www.mariocalabresi.com/stories/la-capoccia-e-la-creativita/



«Per avere futuro bisogna guardare avanti, non perdersi nelle nostalgie del passato e nel ricordo dei tempi andati». Se la raccomandazione viene da un uomo di 102 anni e mezzo che ogni mattina nuota per almeno mezz’ora, legge, scrive, vive da solo, va al ristorante, naviga su Internet e manda mail con allegati, allora siamo obbligati a prenderla alla lettera. Un uomo che è nato durante la Prima guerra mondiale, nell’anno esatto – il 1918 – in cui il virus della Spagnola fece strage nel mondo: «Ero il quarto figlio, davanti a me c’erano tre femmine, ma alla fine di quell’anno sarei stato il primogenito, la pandemia prima e la difterite poi si portarono via le mie sorelle».


Francesco De Bartolomeis, pedagogista, inventore del tempo pieno, si è sempre preoccupato dell’educazione delle persone, non tanto dei programmi della scuola ma piuttosto del sistema formativo, di quel percorso che prepara un bambino a essere un cittadino creativo. Per questo sono venuto a trovarlo nella sua casa torinese, in mezzo ai libri e ai suoi quadri, per parlare della scuola che ricomincia, della didattica a distanza e di come si può diventare grandi conservando viva la curiosità dei bambini. Mi fa sedere su una sedia di design e mette la mani avanti: «L’ha progettata l’architetto Caccia Dominioni, significa che è bella ma anche molto scomoda e tu sei così alto». Sorride da solo, confrontando la mia altezza con la sua e aggiunge: «Se oggi noi siamo qui a parlare è perché io sono piccolo: ero a Pola, allievo ufficiale di fanteria, quando arrivò un’ordinanza di Mussolini, diceva che chi era più basso di un metro e 65 non poteva fare l’ufficiale di fanteria ma doveva passare in artiglieria. Io ero alto 164 centimetri e mezzo e devo a quel mezzo centimetro la vita: i miei compagni andarono tutti a fare la campagna di Russia e non tornarono».


Gli chiedo subito, al di là dell’altezza, se esiste una formula per arrivare a superare il secolo di vita con la sua energia: «La smoderatezza, non nel senso dell’eccesso, ma nel senso che bisogna buttarsi nelle cose, essere creativi, vivere con passione. Io non ho nostalgie del tempo passato: a settant’anni ho dato le dimissioni da professore universitario anziché chiedere di restare fuori ruolo, perché non volevo un ripiego, sarei stato come un chirurgo che lasciano stare in ospedale ma non può operare. Invece bisogna essere sempre protagonisti della propria esistenza, coltivare interessi e progetti».


Ma davvero si può riuscire a non guardare indietro, a non avere nostalgia?


«Naturalmente la nostalgia non chiede il permesso, ti arriva addosso all’improvviso, ma se tieni un piede nel futuro può anche essere una cosa dolce». Si infastidisce perché ho dovuto ripetere la domanda: «Sono diventato un po’ sordo, porca miseria». Gli chiedo se abbia altri problemi e capisco che la provocazione e l’allegria sono la sua cifra: «Sì, ho il problema che sono disordinato. Si vede che vivo da solo perché è un casino e ogni pomeriggio vengo sgridato dalla mia compagna quando viene a trovarmi».


Lei è il padre del tempo pieno e l’ispiratore di molte riforme della scuola.


«Dicono così…scrivono così. Non voglio darti una risposta spiritosa, ma a me il tempo pieno non interessa, mi interessa invece l’apprendimento. Dimostratemi che si può imparare senza avere un tempo lungo e mi ricrederò. Il tempo pieno è necessario per apprendere, ma niente compiti a casa: quando gli scolari e gli studenti escono da scuola devono essere liberi. La scuola non è un lavoro, non è una professione, fuori ci sono altre cose da fare per crescere. Il tempo pieno è l’ampliamento temporale a cui va aggiunto l’ampliamento spaziale: andare a vedere come stanno le cose nei luoghi dove accadono».


Per questo lei è favorevole all’alternanza scuola-lavoro?


«Sì, ma va fatta in modo costruttivo, dovrebbe essere l’occasione per dare ai ragazzi la capacità di affrontare problemi e di risolverli. Certo, se tu vai a formarti in un lavoro statico e ripetitivo, vai a fare le fotocopie in banca, allora non cresci e ti prepari a fare un lavoro così, in modo conformista. Il mondo invece è trasformazione e il lavoro è il motore di tutto».


Lei insiste sempre sul valore del lavoro, perché? Non le piace l’idea di una formazione pura?


«È più importante il lavoro dello studio, dirò di più: se allo studio togli il lavoro non capisci niente. È importante preoccuparsi dello sbocco di tutto il percorso scolastico. A scuola la storia andrebbe fatta come si fa la preistoria, studiare come vivevano, cacciavano, si organizzavano e abitavano gli uomini primitivi; poi, invece, diventa un racconto di guerre e alleanze politiche. Ma non puoi capire la società se non conosci cosa si produceva e cosa si inventava e non capisci il mondo in cui ti troverai. Il lavoro è progresso, per questo sono stato consulente per vent’anni dell’Olivetti».


Lei mette al centro la contaminazione, la necessità di confrontarsi con il mondo, oggi viviamo un tempo di distanziamento fisico e abbiamo avuto mesi di didattica a distanza.


«Io sono favorevolissimo agli strumenti informatici e, se non si può fare diversamente, ben venga la didattica a distanza. Ma non può essere la regola, lo studente deve avere la possibilità di sentire non solo il suo insegnante ma avere un’interazione con l’esterno, incontrare persone, raccogliere stimoli. E poi, mi perdoni la parolaccia, devi togliere il culo dalla sedia. Un conto sono i documentari, ma devi vedere i luoghi, toccare la terra e l’acqua».


Vedo che usa regolarmente il computer, non sento in lei una diffidenza verso la tecnologia.


«È fondamentale usare le tecnologie nuove ma ogni invenzione, ogni nostro passo, ha sempre un padre e una madre: la capoccia e la creatività».


Che studente era lei?


«Ho fatto le Magistrali a Salerno e non si studiava molto, si faceva vita di strada. La professoressa di latino era cieca, noi a turno uscivamo e andavamo a fare il bagno. Poi mettevamo il costume ad asciugare sulla finestra. Ma all’ultimo anno il professore di filosofia, mi ricordo ancora il suo cognome, Corigliano, mi spinse ad andare a studiare per conto mio alla Biblioteca civica, a prendere libri di filosofia. Mi disse: “Non sprecare il tuo tempo, puoi diventare una persona importante”. Mi ha smosso qualcosa dentro e mi sono detto: qui bisogna cominciare a fare sul serio e sono andato a studiare all’Università a Firenze. Mi sono laureato poi con una tesi su Vico che è piaciuta a Benedetto Croce, che nel 1944 pubblicherà il mio primo libro: “Idealismo ed esistenzialismo”».


Guarda continuamente avanti e mi parla di presente e di futuro, ma quali sono i suoi ricordi più belli?


«Ho avuto una vita felice fino al 2016, quando è morto mio figlio Paolo, un bravissimo matematico. Da quel momento ho smesso di dipingere e i ricordi belli si sono oscurati. Di lui mi porto dentro la semplicità, era una persona piacevole, lineare, stava bene con tutti ed era in sintonia con gli altri».


Lei ha un dolore così grande eppure ha così tanta vita.


«Sono attivissimo, scrivo libri, faccio interviste, ma questo non compensa la sofferenza per la morte di mio figlio, anzi, la rafforza. Più sei vitale e più hai forze per soffrire».


Le morti innaturali, quelle dei figli e dei bambini, la accompagnano fin dalla nascita.


«Io ero appena nato quando la sorellina poco più grande di me è morta di Spagnola. Per il dolore mia madre perse il latte, così venni cresciuto con il latte d’asina. Poi sono morte le altre due sorelle, una dietro l’altra in quel 1918, una dietro l’altra. Mia madre restò traumatizzata tutta la vita, non siamo mai andati al cimitero e non se ne è mai parlato. Ho avuto altri tre fratelli ma adesso non c’è più nessuno, sono rimasto solo».


Chi sono i suoi amici oggi?


«Sono un gruppo di settantenni con cui vado al ristorante e con cui faccio le mie discussioni».


Che vita fa ogni giorno a 102 anni?


«Ogni mattina mi alzo alle sei, faccio colazione con yogurt, cereali e frutta, e alle 8:30 vado in piscina. Nuoto con calma per una quarantina di minuti, lo faccio tutti i giorni da quarant’anni. Prima facevo 50 vasche a stile libero, adesso sono sceso a 40 e certi giorni ne faccio solo 20 e poi aggiungo un po’ di esercizi in acqua. Quando ho compiuto i cento anni non mi volevano più far pagare l’abbonamento. Se avessi accettato sarei stato un miserabile. Ma loro insistevano, allora ho preso i soldi della tessera e ho fatto una donazione per la promozione sportiva».


Accanto al computer c’è un libro di poesia di Andrea Zanzotto, lo sta rileggendo, ma predilige i romanzi e il suo autore preferito è Maurizio Maggiani, anche se la libreria è piena soprattutto di libri di arte e il suo artista preferito è stato Lucio Fontana: «Era un uomo eccezionale». Si mette a rovistare sulla sua grande scrivania, sta cercando una cartellina, tira fuori due disegni di Ernesto Treccani, quasi un suo coetaneo, era nato nel 1920, ma se ne è andato dieci anni fa. Me li mostra, sono due donne stilizzate, li rimette nella cartellina e me li regala. Perché? «Perché è un modo di farli vivere. Non è generosità, il piacere è mio, con te staranno più tempo». Ma se non è generosità questa! «No, la generosità per essere tale deve essere scomoda, devi fare qualcosa di fastidioso e faticoso, altrimenti è solo un piacere».

giovedì 17 settembre 2020

Alle radici della violenza






Alle radici della violenza



Francesco Provinciali    16 Settembre 2020       

http://www.associazionepopolari.it/APWP/2020/09/16/alle-radici-della-violenza/


Prosegue inarrestabile (potrebbe essere diversamente?) la striscia negativa delle brutte notizie.


Si resta sbigottiti a seguire l’avvicendarsi di fatti di cronaca nera: ripetuti e quotidiani gesti di violenza che si superano per efferatezza e bestialità. “Homo homini lupus”: da sempre è così ma oggi tutto è amplificato ed enfatizzato dai media, di ‘buone nuove’ si è persa ogni traccia, non si trovano più neanche nei mercatini dell’usato.

È tutto un rimbalzare di episodi atroci e criminali: comunque li si voglia chiamare o definire si appalesano come evidenze drammaticamente negative sia del vivere sociale che dei comportamenti individuali. Una lunga catena di gesti inconsulti di cui ci si attende quotidianamente l’anello successivo, come se la notizia di quelli precedenti fosse del tutto ininfluente rispetto ad ogni remora, incapace di fermare una mano assassina, come in una sfida dove il delitto vince la ritrosia, i freni inibitori, il timore di essere scoperti e puniti, per non parlare delle regole morali che vengono infrante: il rispetto della sacralità della vita, il diritto all’identità e al futuro per ogni essere umano, il pudore e il pentimento verso ogni possibile offesa della sua dignità.

Alle radici della violenza come atteggiamento ripetuto e prevalente rispetto alle alterne vicende della vita c’è un mix di derive sociali che spingono, condizionano fino ad una sorta di mutazione antropologica, ci sono atteggiamenti compulsivi condivisi, esempi negativi che non vengono corretti e stigmatizzati, come se il gruppo fosse branco, il sodalizio umano un luogo di reciproche sopraffazioni.

Alla base della violenza dilagante c’è la crisi epocale, economica in tutti i suoi risvolti: l’immigrazione clandestina, la disoccupazione, la miseria, le povertà emergenti, la pochezza culturale. A cominciare dal linguaggio imbarbarito ed usuale e dalle sue declinazioni in gesti di aggressività e – specularmente – dalla debolezza del pensiero, dalla carenza di riflessione, dal mercimonio dei sentimenti.

Ci sono drammi umani che sconvolgono e ribaltano esistenze e consuetudini, che portano a situazioni insostenibili e impensate, che generano pulsioni di indignazione e ribellione.

La violenza oggi nasce in una società dove l’ignavia e l’indifferenza si mescolano a prepotenze che schiacciano le persone verso una irreversibile soccombenza, impongono ingiustizie intollerabili. Ma non dobbiamo dimenticare che la scelta tra il bene e il male, tra un atteggiamento pacifico e interlocutorio e l’esplosione incontrollata di pulsioni bestiali è legata al discrimine del libero arbitrio perché nel momento in cui si decide di offendere, ferire, aggredire, uccidere si è soli davanti alla propria coscienza.

Da troppo tempo si è diffuso un senso di impunità nei comportamenti sociali e molta parte della cultura finora prevalente ha contribuito a de-responsabilizzare gli individui nei confronti della loro coscienza individuale. La certezza o la speranza di farla franca, di cavarsela a buon mercato, di restare impuniti, di non essere scoperti, di ritenersi capaci di compiere il delitto perfetto, di essere tutelati in sede di procedimento giudiziario da tutta una serie di variabili attenuative e indulgenti sono sostenuti troppo spesso da un lento e progressivo ovattarsi del “senso di giustizia” nell’immaginario collettivo.

Tutti invocano un tipo di giustizia che stenta a realizzarsi, perché alla colpa o al dolo subentrano le aspettative di resipiscenza e redenzione, la tutela del presunto colpevole supera la ricerca della verità: la morte è morte, non c’è più nulla da fare per chi non c’è più, niente è più esemplare di chi si emenda, di chi perdona: “in dubis abstine”…..“in dubio pro reo”.

E il legittimo diritto di difesa anche di fronte all’evidenza dei fatti, il ricorso alle attenuanti generiche, il pentitismo a buon mercato, l’invocazione troppo spesso ripetuta dell’incapacità di intendere e di volere, l’attenuazione del principio di consapevolezza e volontà, la scelta del rito abbreviato, lo sconto di pena, la sua conversione in una sanzione più mite, la facile e disinvolta cultura della riabilitazione, un buonismo intriso di cavilli procedurali e di scrupoli di coscienza: tutto attenua, tutto ridimensiona, bisogna capire … “ha perso la testa ma non voleva”… “è sempre stato un bravo ragazzo”… “è un uomo tutto casa e lavoro”…”sentiva delle voci che gli dicevano di commettere il male … ma lui non era consapevole … si è accorto dopo di ciò che ha commesso … ora è pentito e chiede perdono”.

Ma possiamo permettere di abituarci collettivamente al femminicidio, alla violenza criminale sui familiari, alla pedofilia, all’abuso dei minori, alla sopraffazione dei deboli e degli indifesi, allo stalking compulsivo, ossessivo e persecutorio come se fossero comportamenti socialmente dilaganti, fatti prevalenti di costume, giustificati dalla crisi economica, dalla perdita del lavoro, dal presunto tradimento, dalla debolezza umana, dalla provocazione, dal sentimento di possesso?

Credo fermamente di no.

Il susseguirsi di episodi di violenza e di offesa diventa esso stesso spettacolo, come nella sequenza di una fiction ad episodi mentre restano sul campo vittime senza colpevoli, rimane il dolore e la disperazione dei padri, delle madri, dei figli nel quale ci immedesimiamo con partecipazione emotiva sincera ma spesso effimera.

Alla radice della violenza c’è il prevalere del male sul bene, del crimine sull’onestà di intenti: c’è sempre l’uomo, la persona., l’individuo che in genere – eccetto rare e documentate situazioni di buio della coscienza – decide ed agisce secondo deliberazione e consapevolezza del delitto che sta compiendo. Ricordo ciò che mi disse il Prof. Vittorino Andreoli: “ci pensi su due volte prima di dire conosco una persona”.

Che cosa scatta nella mente di chi alza il braccio per un gesto omicida? Non sempre o non solo la follia. Non sempre e non solo l’istinto dell’ira irrefrenabile e inconsapevole.

Si dovrebbe guardare a questi fatti per quello che sono, molto, troppo spesso: gesti cercati, costruiti, studiati e ‘scientemente premeditati’ di violenza, ad ogni costo, oltre il rispetto della vita altrui.

Sovente la “follia” viene confusa con una deliberata alterazione dell’ego, come un’ombra oscura che nasconde la realtà fino a negare “intenzione e volontà”. E nelle pieghe di questi fatti di cronaca emerge lo spaccato di condizioni sociali e individuali coscientemente orientate verso il male.

“Non giudicate se non volete essere giudicati”: è vero.

Direi di più: in una società veramente civile ogni pena deve essere programmata in funzione del riscatto e della riabilitazione del reo. Ma se archiviamo la violenza come comportamento possibile, imprevedibile, comprensibile, tollerabile cercando attenuanti e giustificazioni fino a forzare l’evidenza del principio di realtà ci poniamo tutti, indistintamente fuori da quella cerchia di valori e di esempi positivi e orientati al bene comune sui quali si basa la nostra convivenza e l’idea stessa di civiltà.

In questo consiste forse la nostra “vera e inconsapevole follia”.

domenica 13 settembre 2020

UN RACCONTO BUDDHISTA: I TRE MONACI CHE RIDONO


Questo è l'antico racconto di tre monaci molto venerati e rispettati dalla gente ma dei quali nessuno conobbe mai i nomi. In Cina essi erano conosciuti semplicemente come "i tre monaci che ridono.

Costoro non facevano altro che ridere: entravano in un villaggio, si mettevano in mezzo alla piazza, e iniziavano a ridere. Piano piano altre persone venivano contagiate da quella risata, finché si formava una piccola folla, e il semplice guardare quelle persone faceva scoppiare dal ridere tutti i presenti. Alla fine tutti gli abitanti venivano coinvolti dalla risata collettiva. A quel punto i tre monaci si spostavano in un altro villaggio.

La risata era la loro unica predica, il solo messaggio.

Non insegnavano nulla, nel senso letterale del termine: si limitavano a creare quella situazione. Erano amati e rispettati in tutta la Cina: nessuno aveva mai fatto prediche o sermoni simili!

Essi comunicavano che la vita dovrebbe essere solo e unicamente una risata. E non ridevano di qualcosa in particolare: si limitavano a ridere, come se avessero scoperto lo «scherzo cosmico».

Quei monaci diffusero gioia infinita in tutta la Cina, senza usare una sola parola.

Con il tempo invecchiarono e uno di loro, un giorno, presso un villaggio, morì. L’intero villaggio si chiedeva come avrebbero reagito gli altri due: almeno in quella circostanza ci si aspettava che avrebbero pianto.

Tutti gli abitanti del villaggio, dunque, si riunirono e andarono a trovare i due monaci rimasti e a rendere omaggio al defunto. Con grande sorpresa trovarono i due monaci superstiti che, accanto al cadavere del loro amico, ridevano a crepapelle.
Il capo del villaggio, esordì quindi a nome di tutti e disse: " Non capiamo. Questo davvero non lo campiamo. Potete spiegarci perchè ridete della morte del vostro compagno?"
Fu la prima volta che i due monaci ruppero il silenzio.

Il primo disse: «Ridiamo perché il nostro amico ha vinto. Ci siamo sempre chiesti chi tra noi sarebbe morto per primo, e lui ci ha battuti. Stiamo ridendo della nostra sconfitta e della sua vittoria..»
E il secondo monaco aggiunse: « Inoltre, ha vissuto con noi così tanti anni, e insieme abbiamo riso e ci siamo divertiti e la gioia va sempre celebrata.»

Le risposte non furono comunque di grande conforto ne' convincenti per la gente del villaggio che , mesta e sconsolata si avvicinò dunque al monaco defunto per l'ultimo ossequioso saluto e con grande stupore si accorsero che anche costui sembrava sorridere.
Prima di morire aveva detto ai suoi amici: «Non cambiatemi le vesti, e non lavatemi, perché sono sempre stato pulito. Ho riso tanto nella mia vita, che nessuna impurità si è mai accumulata in me, addirittura non sono mai stato toccato da impurità. Non ho raccolto polvere: la risata è sempre giovane, fresca e pulita. Per cui, non mi lavate e non cambiatemi le vesti!»

Per rispetto delle sue ultime volontà, dunque, non gli cambiarono l’abito. E Quando il corpo del monaco fu posto sulla pira funebre per essere bruciato, si accorsero d’improvviso che nei vestiti aveva nascosto dei fuochi artificiali. Pum, pum, pam!

L’intero villaggio si mise a ridere, e i due monaci rimasti dissero: «Furfante! Sei morto, e ti sei fatto anche l’ultima risata!»

lunedì 7 settembre 2020

Racconti dal MaterassoEntra una ragazzina sui 12 anni chiedendomi aiuto. - la mamma è caduta e perde molto sangue.

Le madri ritrovate, un tesoro fotografico di 50 anni fa

Entra una ragazzina sui 12 anni chiedendomi aiuto.
- la mamma è caduta e perde molto sangue.

Le vado incontro e vedo la mamma barcollante avanzare verso il negozio, tenendosi un fazzoletto sul naso sanguinante.

Cerco di farla sedere sulla poltrona relax per poterle fare un primo soccorso. Le alzo le gambe con il telecomando e abbasso un pò il busto. Corro a prendere la valigetta del pronto soccorso che abbiamo in bagno, la apro e cerco il sacchetto del ghiaccio istantaneo, prima schiaccio in centro ma niente, allora gli do un pugno deciso ed il freddo arriva all'istante. Glielo porto e con un fazzolettino glielo posizione sulla fronte e sul naso. La ragazzina tiene la mano della mamma e ha gli occhi che le si riempiono di lacrime come i cartoni animati giapponesi ma tiene duro.

Io la rassicuro che è solo una brutta botta ma che è meglio chiamare l'ambulanza anche solo per darle un controllo da chi se ne intende. Nel frattempo le disinfetto le ferite naso mani e ginocchia e vedo che il sangue si placa ed escono le botte, che è un buon segno. Mi ritrovo un sangue freddo che non mi riconosco. Chiamo il 118 e spiego all'operatore dove siamo e lui mi chiede come si chiama il negozio, Perdormire rispondo e lui:
- si ho capito ma come si chiama il negozio?

PERDORMIRE si chiama proprio così.

Mi chiedo se per caso erroneamente ho fatto il 112 anziché il 118 ma sorvolo con gli occhi al cielo. Cerco di capire se la signora è lucida e vedo che risponde bene e si sta rilassando. La ragazzina nel frattempo ha chiamato il papà per venire a recuperare la macchina e spiegargli l'accaduto. Io le dico che è stata brava a gestire tutto con fermezza, lei allora mi dice che le era successo di accudire il nonno quando era caduto per cui con aria importante si da un tono da grande ma appena arriva la crocerossa a sirene spiegate scoppia a piangere.

Io mi avvicino per darle un cuoricino di Memory come antistress ma lei non lo vuole dicendomi che non è stressata. Io sorrido perché capisco che a lei la vita sta insegnando di diventare grande presto e l'antistress me lo tengo io che ne ho invece tanto bisogno

martedì 1 settembre 2020

BAGNARSI NEL FIUME DI ERACLITO

Il Cambiamento e la Rosa - Eraclito e Silesius- #cambiamento#vita #natura #rosa #PantaRei - YouTube


BAGNARSI NEL FIUME DI ERACLITO 


Lei (accompagnandosi con la chitarra) Ti piace la mia canzone? «…torniamo a tuffarci nel nostro fiume…» 

Lui. Torniamo? Mi sembra che il filosofo Eraclito avesse detto chiaramente che non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume. 

Lei. In che senso? 

Lui. Nel senso che quando ci torni la seconda volta, il fiume non è più lo stesso, perché l’acqua che ci trovi è diversa. 

Lei. In tal caso non ti puoi bagnare nemmeno una volta nello stesso fiume. 

Lui. Perché? 

Lei. Seguendo lo stesso ragionamento, dal momento in cui ti tuffi a quello in cui esci, l’acqua del fiume scorre via e non è più la stessa, quindi il fiume non è più lo stesso. 

Lui. Giusto. Tutto scorre. 

Lei. Però… non è detto che sia sempre così. 

Lui. Vuoi dire che non tutto scorre? 

Lei. Non tutto. Immagina che il fiume sia ghiacciato. Nuoti (un po’ faticosamente) alla sua superficie. Non ti stai bagnando una volta nello lo stesso fiume, e anche due se ci ritorni? 

 Lui. Solo se accetti che un fiume ghiacciato sia ancora un fiume, e che nuotare sulla sua superficie ghiacciata sia un modo per bagnarsi… 

Lei. Il fiume si allarga e, in corrispondenza di una grande ansa, l’acqua è praticamente ferma. Non stai nuotando nello stesso fiume (una, due, cento volte?). 

Lui. Un fiume che si ferma è un lago, non è più un fiume. Eraclito non sarebbe passato alla storia per il detto «Non ci si può bagnare due volte nello stesso lago». 

Lei. Che cosa mi dici di questo: Un ricco buontempone raccoglie tutta l’acqua del fiume a valle, poi la pompa a monte e si fa quanti bagni vuole nello stesso fiume. 

Lui. Queste cose non erano possibili ai tempi di Eraclito. 

Lei. Il fiume scorre, tu ti tuffi e nuoti nella corrente. Poi dopo un po’ esci dall’acqua, scendi a valle e ti rituffi nella stessa acqua. Non ti sei bagnato due volte nello stesso fiume? 

Lui. Mi sono bagnato due volte nella stessa acqua, ma non nello stesso fiume. Il fiume è cambiato. E comunque evidentemente Eraclito pensava che non ci si potesse bagnare due volte nello stesso fiume allo stesso posto. 

Lei. E allora perché non l’ha detto? Fa tanto il precisino con le sue frasi a effetto, ma poi quando vai a vedere deve escludere una quantità di casi. 

Lui. Che cosa vuoi dire? 

Lei. Voglio dire che di volta in volta quello che cambia non è il fiume, ma ciò che ti fa dire se una certa cosa sia ancora la stessa di prima. Secondo me ti puoi bagnare quante volte vuoi nello stesso fiume. Sì, proprio lo stesso fiume, anche se l’acqua scorre, non è ghiacciata, non  viene ripompata a monte e tu nuoti controcorrente. Il fiume è quello che è indipendentemente dall’acqua che lo compone (come il tuo corpo, del resto: non è mica formato oggi dalle stesse cellule che lo componevano ieri). Se poi arriva uno e mi dice che no, il fiume non è veramente lo stesso, e fa il pignolo, io gli dico che di pignoleria si muore. A un certo punto devi accettare che le cose sono le stesse o sono diverse sulla base di un qualche criterio, e non c’è nulla nelle parole di Eraclito che ci debba far preferire il suo criterio ad altri, ammesso che lui avesse davvero un criterio. Il fiume di Eraclito è qualcosa di diverso da quello che tutti pensiamo che sia. 

Lui. Il che non significa che avesse torto lui. 

Lei. Non si tratta di aver torto o ragione. Si tratta di avere un concetto di fiume che corrisponde all’uso normale della parola «fiume». 

Lui. Riprendiamo… Com’era la tua canzone? 


Roberto Casati e Achille C. Varzi Il Sole 24 Ore, 16 dicembre 2012