martedì 8 febbraio 2022

Sara Cassandra: Gentile Professoressa la sua assenza coesiste con la sua presenza.






Gentile professoressa,

io non saprei esattamente come, ecco, diciamo che io non so come introdurre tutto questo. Mi perdoni, probabilmente mi sta già riconoscendo dallo stile esitante. Oggi i miei genitori me l'hanno detto, lei può immaginare che cosa, e adesso lo sappiamo proprio tutti, ha inviato una segnalazione per le mie numerose assenze, e io volevo dirle che ha fatto bene, dico davvero, è il suo dovere. 

Però anch'io sento un dovere in espansione che mi trascina a parlare delle sue assenze, della sua assenza. Vede professoressa, io temo che la differenza fra la mia assenza e la sua assenza è che la sua assenza è autosabotata per definizione. Perché è un'assenza che coesiste con la sua presenza. 

Mi spiego meglio. 

Io non ci sono e non ci sono. 

Lei invece c'è e non c'è. Capisce?

Conservo ancora il ricordo della sua prima assenza, lei se ne stava lì, di fronte a me (presente) eppure non era mai stata tanto assente. Io me ne stavo lì, di fronte a lei (presente) eppure la mia presenza non la riguardava. Non la sto accusando, mi creda, non intenzionalmente, tutto questo è soltanto per dirle che io ho cominciato ad assentarmi imparando dalla sua assenza. 

Lei poteva salvarmi. Perché non mi ha salvato? Perché non mi ha tirato fuori da quelle grinfie feroci? Dio, ero circondato da mostri non addomesticati, mostri senza destrezza, incapaci a fermarsi, un bestiario ubriaco tutto perso in un delirio di movimenti neonatali, io me li ricordo, che muovevano i loro primi passi con uno sgambettare ridicolo e con uno scalciare scoordinato. È veramente così, è come le dico, quando morivano alla loro natura di esseri umani e si facevano nascituri dal grembo del mostro, loro imparavano subito il mestiere di saltare, e saltavano proprio sopra ai miei compiti, sui miei fogli scritti, a cui immensamente avevo faticato, nel mio affanno di pensieri e parole - pensieri e parole, professoressa - loro ci saltavano sopra, e lasciavano sul foglio una disgustosa impronta di terriccio secco che sapeva ancora di pioggia. E lei ci può giurare, li conservo ancora negli occhi, quei timbri di scarpe moleste, macchie opache che rievocano le forme spezzate e asimmetriche delle suole. A dirla tutta, qualche volta ho avuto la sensazione che non fossero nemmeno impronte vere, ma che fossi io stesso a proiettare l'idea del mio disgusto con gli occhi, a solidificare il mio disgusto in un alone scuro sulla chiarità del foglio. Professoressa, ero così spaventato dall'esistenza di quei mostri, che preferivo sentirmi io stesso il mostro. 

Mi stavo assumendo l'estrema colpa della loro mostruosità. Riesce a immaginare? 

Cominciai ad assentarmi all'inizio del primo trimestre, quando la mattina mi guardavo allo specchio e mi incolpavo per i miei lineamenti sottili e delicati, che vedevo contrastare con il mio essere maschio. Credevo che la conformazione del mio volto attivasse l'ira delle persone, come se io avessi un tipo di segnaletica facciale capace di ricordare qualche paura ancestrale e primitiva, forse inconscia, nei bulli. Magari mi attaccavano perché vedevano in me un nemico remoto, fosse anche il volto di un antico angelo troppo buono per essere amato, che stava impiantato nei circuiti genetici della memoria collettiva. Sa, quando andavo a raccogliere i miei fogli rovinati a terra, e cercavo di ricucire qualche parola, mi persuadevo del fatto che i bulli detestavano l'azione di produrre pensieri. Mi dicevo che quell'atto di bullismo non era che una maniera di saltare sui loro stessi pensieri inespressi. Come a dire: se io non posso pensare i tuoi pensieri prima di te, neanche tu dovrai pensare quei pensieri; se io non posseggo i tuoi pensieri prima di te, tu dovrai smettere subito di possedere i tuoi pensieri. Era come se vedessero il mio pensiero come una porzione di vita che a loro mancava. E allora oscuravano il mio pensiero con un salto stordito. E macchiavano le mie parole. Che dovevano diventare le sue parole. Perché erano destinate a lei, professoressa. Erano i miei compiti per lei, quelle parole sciupate. 

Ma lei dov'era? Ha detto ai miei genitori che ho fatto troppe assenze. È vero, lo so, io stavo scappando. Ma le sue assenze? Io non posso dimenticarle, quelle. Non dimentico la sua assenza di attenzione quando avrebbe dovuto osservarli. Non dimentico la sua assenza di parole quando avrebbe dovuto tacerli. Non dimentico la sua assenza di gesti quando avrebbe dovuto fermarli.


Sara Cassandra 


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