venerdì 6 novembre 2020

il vecchio Napayshni -L'anziana giapponese ChigoyoJ- yotiraditya, nella sua giovinezza, è stato un brahmacarya:







di  Leonardo Lenzi


La tribù sta per partire, l'accampamento viene smontato in fretta: occorre seguire gli spostamenti dei bisonti. C'è movimento, eccitazione, grida, risa, bambini, nitriti, rumore di zoccoli e di carriaggi. Eppure il vecchio Napayshni non si muove, è fermo in piedi e guarda la prateria. Il figlio maggiore, Ohitekah, si avvicina, dice Padre, partiamo, ma il vecchio Napayshni non sembra udirlo. Ohitekah comprende. La tribù se ne va, e Napayshni rimane da solo in un silenzio che si fa sempre più denso. E' molto stanco, è malato, sente che la vita gli sfugge da ogni parte. Non ce l'avrebbe fatta a spostarsi ancora, sarebbe stato un peso per tutti - anche se nessuno l'avrebbe mai lasciato indietro. Giunge la sera, il vecchio prepara un piccolo fuoco, così piccolo che può stare tra le sue gambe incrociate, ora che è seduto. Napayshni si avvolge del suo pesante scialle e mormora qualche preghiera, la canta piano piano, in compagnia della voci degli animali notturni. Su di lui vortica immenso lo stellato dell'emisfero boreale, gli astri nitidi come gemme. Ogni tanto un bolide attraversa la volta del cielo. Ed ecco che...

L'anziana giapponese Chigoyo chiama il figlio, che è un uomo robusto, e gli dice che è tempo. Non ancora, madre, dice lui. E' tempo invece, è tempo. Aiutami: voglio incontrare gli dèi. E' tempo, finalmente. In silenzio, il figlio se la carica in spalla e comincia a salire lungo il ripido sentiero che si inerpica lungo la costa di una delle alte montagne della Kita Arupuso, sull'isola di Honshu. Dopo molte ore di cammino giungono a un eremo di pietra molto isolato, vicino a una statua di Jizo Bosatsu. Il figlio depone la madre, si inchina, e rapidamente fa ritorno lungo lo stesso sentiero. fa molto freddo e comincia a nevicare, la statua del santo bodhisattva si copre di bianco, così come i rami degli abeti. Chigoyo siede in meditazione nel suo kimono bianco. Il vento produce mulinelli con la neve che sembrano forme vive. Ed ecco che....

Jyotiraditya, nella sua giovinezza, è stato un brahmacarya: fino a circa venticinque anni visse nella casa del Guru, ai suoi piedi, casto, disciplinato, obbediente, ad apprendere il dharma.  Poi ha lasciato il maestro, si è sposato, ha trovato un lavoro, ha generato figli e figlie, come Grihastha. Poco prima di avere cinquant'anni, avendo restituito alla società ciò che la società gli aveva dato, si è ritirato in un boschetto non lontano dalla sua casa per meditare e per lasciare andare. Ogni tanto la sua famiglia va a trovarlo, e lui gioca con i nipotini e riceve di buon grado le offerte di cibo. Oggi è proprio uno di quei giorni: assieme al padre e alla madre, il nipotino preferito Ehsaan va a trovare il nonno nel suo capanno di frasche nella foresta, e gli porta dei dolcetti di riso che sa che gli piacciono. Arrivati, però, non trovano nessuno. Tutto è in ordine. Con le lacrime agli occhi il bimbo chiede perché il nonno non c'è. E' andato con Dio, risponde il padre, quel padre che ha ormai trent'anni e guarda con un po' di paura e un po' di desiderio il luogo ora vuoto che un giorno sarà lui ad abitare. Con la barba e i capelli rasati, coperto solo con uno scialle arancione, avendo deposto accanto a sé le sue uniche propruietà, il bastone e la ciotola, il vecchio siede sulla riva della Kaveri, nessuno ormai sa chi è, cos'è stato, il suo nome, non è più Jyotiraditya,  ha lasciato tutto, è un Samnyasa, uno dei tanti. Ed ecco che....

Nessuno chiede a questi vecchi di lasciare, eppure essi lasciano. Nessuno chiede loro di andare, eppure essi vanno. Vanno per motivazioni spirituali, perché l'arte della vecchiaia è l'arte del congedo. Vanno anche per ragioni sociali, perché onorano la vita e la giovinezza, e sanno - poichè le hanno per primi ben vissute - che esse sono rette da leggi diverse e per loro ormai inadeguate. Fanno posto, si scostano, prendono altre vie, senza che nessuno glielo chieda e con grande dignità ed eleganza.

Ora qui invece uno deve fare autodafé perché ha proposto - al fine di custodire ET la vita, l'educazione, gli scambi, il commercio, l'arte, i viaggi ET la salute degli anziani - un lockdown selettivo in base all'età. Apriti cielo: si è tirato fuori dall'armadio degli orrori anche il nazismo e aktion T4, non solo oltrepassando le frontiere, ma raggiungendo il cuore del grottesco. E c'è chi preferisce che tutti siano chiusi piuttosto che lo siano alcuni, Ma, in una situazione come questa, noi anziani non abbiamo forse un compito? Il compito di sottrarsi e di lasciare che la vita viva? Devono forse chiederlo, ordinarcelo per decreto? Non dovremmo essere noi, spontaneamente, a compiere, in un modo il più possibile danzante, questo movimento di abbandono?

Qui non si parla di morire nella prateria nordamericana, di incontrare gli dèi sulla montagna giapponese o di perdersi nel grande Tutto indiano. Qui si parla di astenersi dall'andare in giro per via Lorenteggio con occhi cattivi esaltati dalla mascherina egoista ffp2, dal riempire i supermercati, i mezzi di trasporto, etc., e per un tempo limitato a qualche settimana o mese. E naturalmente ci sono gli anziani soli che dovrebbero essere assistiti e aiutati nel loro isolamento. Però. Non c'è, in questo momento, un dovere morale degli anziani di fare qualcosa (o di astenersi dal farla) nel nome del bene comune. Ci ricordiamo l'autunno, l'inverno e la primavera dei nostri quindici anni o dei nostri venti? Cosa daremmo per ritrovarli? Ora, noi abbiamo vissuto molti autunni, inverni, e primavere: ne cederemo uno non per dpcm, ma spontaneamente, di buona grazia,  perché siano i ragazzi a non perdere i loro? Forse anche per noi ci sarebbe un (piccolo) Ed ecco che.

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