https://www.mariocalabresi.com/stories/la-benzina-della-mia-vita/
«Questo tempo che stiamo vivendo per me ha una sola immagine, che non riesco a togliermi dagli occhi, le persone con il casco dell’ossigeno in testa. Mi ricorda le Madonne che venivano messe dentro le cupole di vetro, lo si faceva una volta per proteggerle dalla pioggia, ma queste cupole di plastica mi fanno molta impressione e paura». Gianni Berengo Gardin, novant’anni da un mese, il maestro italiano della fotografia, mi parla dal telefono fisso della sua casa di Camogli. Dovevamo vederci a Milano per presentare insieme, durante “Bookcity”, la sua autobiografia. Poi è arrivata la seconda ondata e l’incontro è stato cancellato, ma non volevo perdere l’occasione di ascoltare i racconti della sua vita.
Siamo partiti dalla foto simbolo che sceglierebbe per rappresentare l’epidemia e lui non mi ha indicato una delle tante immagini dell’assenza, come la sua Venezia deserta senza le grandi navi e senza turisti, ma qualcosa che ci parla della sofferenza umana. «Perché non abbiamo bisogno di foto estetiche ma di qualcosa che abbia un significato forte, e perché ho una paura pazzesca del virus. Non mi vergogno a dirlo, ma ho una paura che non te la puoi immaginare». Parla con una voce decisa, forte: «Non ho voglia di andarmene. Sono attaccato alla vita perché trovo che la vita sia una cosa meravigliosa, anche quando ti va male, anche nei giorni neri. Io non ho paura della morte ma mi secca l’idea di morire, perché significa abbandonare tutte queste cose meravigliose. Voglio vedere ancora i miei alberi fiorire e dare frutto. Voglio ancora vedere le stagioni cambiare».
Mi racconta che avrebbe dovuto essere a Milano, doveva fare dei lavori nel suo archivio, andare in giro a presentare il libro e preparare una mostra con Roberto Koch, invece tutto è congelato. Gli chiedo che effetto gli faccia questo tempo rubato: «Un po’ di rabbia me la fa, perché quando si è molto vecchi il tempo rimasto è poco, ma non così tanta come potresti pensare, a novant’anni uno si adatta a tutto pur di rimanere su questa Terra. Sono in Liguria bloccato dal virus ma sto bene perché ho un pezzetto di terra e sto tutto il giorno all’aria aperta».
Non riesco a immaginare il fotografo delle città, dei temi sociali, della denuncia dei manicomi in contemplazione della natura: «In effetti per molto tempo della natura non me ne fregava niente, né fotografarla né viverla. Volevo sempre fare lavori sociali, sull’uomo. Pensa che abbiamo questa piccola casa a Camogli da cinquant’anni ma io ci venivo quattro giorni intorno a Ferragosto e cinque a Natale. Mai. Per me non esisteva, amavo solo le città. Poi con l’età mi è venuta una passione per la natura fortissima e nel pezzettino di terra davanti a casa ho piantato 25 alberi, non diecimila come ha fatto Salgado in Brasile, ma tutto il possibile nello spazio che avevo. Sono alberi da frutta: pompelmi, aranci, limoni, un melograno, 20 tipi di piante diverse. La soddisfazione più grande è la fatica fisica: scavare un buco, piantare un albero e poi curarlo, innaffiarlo, potarlo. Faccio tutto da solo, non ho un giardiniere, mi fa stare benissimo. Non capisco nemmeno io cosa mi sia successo, ma mi rilassa e mi fa bene».
Il Berengo giardiniere però non ha preso completamente il posto del Berengo fotografo: «Sto facendo un piccolo lavoro qui a San Fruttuoso, intorno all’Abbazia. È un libro sul borgo, sulle 20 persone che continuano a viverci tutto l’anno. Li fotografo nelle loro case e mentre lavorano, c’è un pescatore che d’estate fa la guida turistica e d’inverno esce in barca, c’è una signora con un banchetto, uno che tiene aperto il ristorante tutto l’anno, un giornalista che ha scelto di vivere nel borgo. D’estate naturalmente la popolazione raddoppia, la barca arriva ogni ora e i ristoranti aperti sono tre, ma nel resto dell’anno il traghetto attracca solo due volte al giorno.
Ho scattato anche a luglio e agosto, ritraendo la folla dei turisti sulla spiaggia, ma ho provato fastidio perché la gente scendeva dalla barca e andava a fare il bagno senza nemmeno visitare l’abbazia. A me la mancanza di cultura e di curiosità fa rabbia. Così sono andato a girovagare nel bosco e la spiaggia sono tornato a fotografarla in autunno e d’inverno. È un luogo con un’atmosfera incredibile, non ci sono costruzioni nuove, solo l’abbazia appena restaurata, le case di una volta e un vecchio mulino».
Mi spiega che questo libro lo sta facendo per la libreria “Ultima Spiaggia” di Camogli, il proprietario – Fabio Masi – è anche un piccolo editore: «Ti chiedi perché mi sia messo al lavoro per lui? Perché ha avuto l’idea e perché me lo ha chiesto e perché i libri di fotografia sono stati tutta la mia vita».
A partire da quel pacco di libri che ricevette all’inizio degli anni Cinquanta: «Me li aveva spediti uno zio che faceva lo psichiatra tra Boston e New York. Era molto amico di Cornell Capa, il fratello di Robert che allora lavorava per la rivista “Life” e poi avrebbe fondato l’Icp (International Center of Photography), e gli chiese quali libri mandare a un nipote italiano che era fotoamatore. Mi arrivarono i volumi di “Life”, scoprii la capacità di raccontare la società attraverso Eugene Smith e rimasi sconvolto dal progetto “Farm” fatto sulla povertà rurale tra gli anni Trenta e Quaranta, dopo la Grande Depressione. Grazie a questi libri ho capito che la fotografia deve essere sociale. Ho capito in un’ora che i miei paesaggi poetici non valevano niente, che i riflessi nell’acqua del lago erano inutili e da quel momento la foto dell’uomo è diventata la mia stella polare. Sono profondamente cambiato grazie a quel pacco di libri arrivato dall’America».
Gli chiedo con che definizione vorrebbe essere ricordato: «Non voglio che di me si dica che sono stato un artista ma uno che ha fatto foto di documentazione. Purtroppo, i giovani pensano che la definizione artista per un fotografo sia un complimento. Ma non vi sbagliate, fate documentazione, raccontate la realtà che vi circonda, anche sotto casa. Non c’è bisogno di andare in Paesi lontani: le foto non sono migliori se il luogo è esotico. Aprite gli occhi».
All’arrivo del Sessantotto, Berengo fotografò le occupazioni e le manifestazioni, ma il lavoro di cui va più fiero è quello sui manicomi che diventerà il libro “Morire di classe”. «Avevo conosciuto Franco Basaglia, il padre della legge che ha cambiato gli ospedali psichiatrici italiani, quasi per caso, accompagnando Carla Cerati che doveva fotografare per “L’Espresso” il manicomio di Gorizia, di cui Basaglia era direttore. Lui rimase colpito dal nostro lavoro e nacque l’idea di un libro sulla situazione dei manicomi in Italia. La mia intenzione era mostrare le condizioni in cui erano tenuti i malati, non la malattia in sé, mi interessava far vedere lo stato di deprivazione e umiliazione in cui quelle persone versavano.
Fu un lavoro molto difficile. Al manicomio femminile di Firenze riuscimmo a entrare solamente grazie all’aiuto di alcuni medici che ci fecero passare come parenti durante gli orari di visita. Quella fu l’esperienza peggiore di tutte, le condizioni erano terrificanti: le donne abbandonate a loro stesse, scalze, sporche, insaccate in informi camicioni grigi, lasciate a rotolarsi per terra e costrette nelle camicie di forza. Il nostro libro fu presentato anche in Parlamento e sono orgoglioso, tanti anni dopo, di poter dire che con la mia fotografia ho contribuito al movimento di opinione che portò all’approvazione della legge che chiuse quei luoghi terribili».
Per anni Gianni ha fotografato anche gli zingari, un lavoro lungo e paziente lungo tutta la Penisola per documentare la loro cultura e le loro tradizioni: «Sono stato nei campi regolari come negli accampamenti, ho partecipato ai matrimoni e alle feste con le orchestrine e ho scoperto un mondo pieno di sfumature. Quando ho cominciato, non ti nascondo che anch’io avevo un sacco di pregiudizi e preconcetti, ma li ho persi per strada. Questo non significa che alcuni non rubino, anche loro me lo dicevano, ma non può essere l’etichetta di un popolo. Come se tra noi non ci fosse chi ruba, e se leggo i giornali mi viene da dire ogni giorno: “E che ladri!” Sono poeti fantastici, musicisti e hanno una cultura raffinata. Ci siamo dimenticati dello sterminio del popolo Rom da parte dei nazisti, nei campi di concentramento Hitler ne ha ammazzati 500 mila, del loro genocidio non si parla quasi mai. Mi stanno particolarmente a cuore».
Guardando le sue foto penso al meraviglioso lavoro sugli zingari fatto da Josef Koudelka e gli chiedo della loro amicizia: «Mi ha molto ispirato, per anni Josef ha dormito nel mio salotto, era un girovago senza casa e soprattutto senza biblioteca. Siccome negli anni io ho raccolto quasi duemila libri di fotografia, quando a mezzanotte lo salutavo per andare a dormire lui si metteva a sfogliare e leggeva libri per tutta la notte. Stava sveglio per ore e lo trovavo la mattina addormentato in mezzo ai volumi».
Gli amici per Gianni Berengo Gardin sono anche dei maestri e sono sempre stati una continua fonte di ispirazione: «È importante avere molti amici con cui scambiare, da tutti impari qualcosa. Ho imparato molto da Ugo Mulas, da Salgado e da Koudelka. Josef mi ha insegnato che le fotografie devono avere una storia, altrimenti sono foto vuote, solo estetiche».
«Un giorno andai a casa di Ugo Mulas, ero appena arrivato a Milano da Venezia, a vedere le sue foto. Davanti a ogni immagine io dicevo: “Bella”. Ad un certo punto si bloccò e all’improvviso mi disse: “Se dici ancora una volta ‘bella’ ti butto fuori di casa”. Imbarazzato risposi: “Ma mi piacciono davvero e cosa dovrei dire delle tue foto, se non che sono belle e buone?” “Ecco, che una foto è buona lo puoi dire”. Imparai quel giorno che c’è una differenza enorme tra le due cose: una foto bella può essere perfetta, ma non dice niente, una foto buona invece, anche leggermente mossa o sfocata, ti racconta qualcosa e ti lascia un’emozione. Io ho cercato di fare foto buone ma, per lavoro, ho dovuto anche fare tante foto belle».
E da Cartier Bresson cosa hai imparato? «Ti farò ridere, ma lui mi ha regalato l’autostima. Un giorno mi fece una dedica su un suo libro e scrisse: “A Gianni con simpatia e ammirazione”. Quando la lessi, pensai: “Posso anche morire stasera che muoio felice della sua ammirazione”».
Il libro, appena pubblicato da Contrasto, è un racconto intimo e delicato della sua vita, racconta lo sguardo e il pensiero del fotografo, non le sue fotografie: «Il merito è di mia figlia Susanna: io sono timido e di poche parole, non mi propongo mai e parlare del passato è sempre stato difficilissimo. Mia figlia, con pazienza, mi ha tirato fuori i ricordi, è stata molto brava. Io ho sempre guardato al futuro, non ho mai perso tempo con il passato, accettavo solo nuovi lavori, nuove cose, per questo sono riuscito a fare 260 libri, non mi sono mai occupato del passato e dell’archivio. Per la prima volta ho dovuto ricordare e ricostruire. E il bilancio è soddisfacente, sono riuscito a realizzare tutti i progetti che avevo in testa. A dire il vero tutti tranne uno: il libro che non sono riuscito a fare riguarda le feste e i riti degli ebrei. È il lavoro che mi manca, mi spiace, mi affascinava molto, ma non sono riuscito a trovare un’occasione e qualcuno che mi facesse da guida in quella cultura».
Non sembra essere mai stanco, anzi ama la fatica, racconta che lavorava “come una bestia”: «Partivo in macchina alle 5 di mattina da Milano, fotografavo fino a quando era buio e poi tornavo a casa che era notte. Il mio vantaggio è stato di fare le cose con passione, con questo spirito potrei dirti che non ho lavorato un giorno in vita mia. La fotografia è stata la benzina della mia vita, la cosa che più me l’ha colorata e che mi ha fatto correre ogni giorno».
Nessun commento:
Posta un commento